Duronia nel ricordo della mia missione in Bangladesh
Una vicenda appassionante che va ancora avanti! Il 25 aprile 1977, salutati mio padre e i fratelli…
P. Antonio Germano Das, S. X.
antoniogermano2@gmail.com
Una vicenda appassionante che va ancora avanti! Il 25 aprile 1977, salutati mio padre e i fratelli con le rispettive famiglie (mio fratello Giovanni, all’epoca, non era ancora sposato), salii a bordo dell’Aerflot, la compagnia aerea russa, che allora era a più buon mercato.
Tra i passeggeri ero l’unico italiano a volare fino in Bangladesh. Lo sguardo fisso sull’oblò, il cuore in gola per il rigurgito di emozioni: volti conosciuti, che lasciavo e volti nuovi che avrei incontrato per incominciare una nuova storia. Il passato ed il futuro s’incontravano dentro di me in maniera spasmodica ed assumevano il senso di croce o kenosis: quello che mi lasciavo dietro e quello che doveva nascere. Una gioia di fondo, che proveniva da consapevolezza di fede, dava sapore di eternità a questo momento incolmabile. Era la prospettiva di annunciare il Regno di Dio, verso cui tutta la mia vita era protesa, che trovava finalmente il suo compimento.
Scalo a Mosca, allora capitale dell’URSS e a Teheran, capitale dell’Iran e approdo finale a Dhaka, capitale del Bangladesh, in mezzo ad uno di quei temporali tropicali, che sembrava dovesse sconquassare l’aereo. Scendendo dall’aereo con l’afa del calore meridiano mi vennero al naso tutti gli odori così caratteristici di questo mondo, che finiranno poi per diventarmi familiari, ma che sul momento mi dettero la netta impressione di un mondo strano e diverso. Ad attendermi all’aeroporto c’era P. Sebastiano Tedesco, allora superiore regionale dei Missionari Saveriani in Bangladesh, morto tragicamente in un incidente di moto nel 1999. Da quel momento in avanti mi sono raccontato spesso e perciò questa volta voglio risparmiare i lettori dai miei ricordi bengalesi.
Il mese di aprile viene a me con un’onda di ricordi legati a Duronia: il mese di aprile è il mese della festa dell’Incoronata ed è anche il mese di Don Alfredo, scomparso così tragicamente in quel lontano 1955, proprio la vigilia dell’Incoronata (l’anno prossimo ricorre il 50° della sua morte e mi auguro che qualcuno ripeschi la sua memoria e la faccia rivivere!). Mi lascio dunque cullare un attimo dall’onda dei ricordi per scivolare nel fiume di una storia meravigliosa, che ha il suo punto di riferimento fisso in Duronia.
In realtà, a Duronia, io ho vissuto solo i primi 12 anni di vita: dal ’39 al ’51. Sono anni che coincidono con una fase particolarmente significativa per l’Italia e per Duronia, in maniera più particolare. Sono nato poco prima che scoppiasse la II Guerra Mondiale e tutta la prima infanzia è segnata dagli anni della guerra. Soprattutto è rimasto vivo nella memoria il ricordo dei bombardamenti, quando, per sfuggire alle bombe, si cercava rifugio nei sotterranei: noi (voglio dire la mia famiglia) a quell’epoca abitavamo a la “Terra”. Quello dell’abitazione è stato un altro capitolo nella storia della nostra famiglia: fino al ’48 in pratica non abbiamo avuto stabile dimora, in quanto si cambiava continuamente casa.
L’immediato dopo-guerra è stato estremamente interessante per Duronia: il ritorno dei prigionieri di guerra, il fervore della ricostruzione! Allora veramente Duronia palpitava di vita: c’era la banda cittadina, il teatro, con recite organizzate in loco dalla gente o da compagnie teatrali che venivano da fuori. In questo periodo Don Alfredo svolse un ruolo di prim’ordine, in quanto era un po’ il punto di riferimento comune. In maniera particolare, noi ragazzi invadevamo la sua casa, che sentivamo un po’ come casa nostra.
Era l’epoca in cui in paese mancava l’acqua e quindi ogni famiglia doveva pensare all’approviggionamento. In questa vicenda, Mario (mio fratello) ed io non possiamo fare a meno di ricordare la fatica di mamma, che provvedeva personalmente al fabbisogno della famiglia, trasportando l’acqua dalla fonte con la tina. Senza parlare dei disagi affrontai per il bucato: d’inverno o d’estate, i panni si lavavano alla fonte d’liasn. Mario si ricorderà che spesso anche noi davamo una mano alla mamma, trasportando l’acqua con il barilotto (‘r varllucce) o con la fiasca (la sciasca).
Fin da quando avevo 6 anni e cioè fin da quando mio fratello Domenico entrò in collegio, ricevetti l’investitura di pastorello: il nostro gregge non superò mai il numero di 3 pecore, perché gli agnelli venivano regolarmente venduti per raggranellare un po’ di spiccioli. L’ultimo agnello fu dato in regalo a Don Alfredo: per un anno intero mi aveva preparato agli esami di ammissione alle Medie, senza chiedere niente. Furono papà e mamma, che, per un profondo senso di gratitudine, pensarono di sdebitarsi in tal modo. Ricordo che per completare il mio corredo necessario per entrare in Seminario a Trivento, con mamma, a piedi, andai alla fiera di Frosolone per vendere la pecora più vecchia, a cui ero tanto affezionato.
L’esperienza di pastore è un punto di riferimento imprescindibile nella mia vita. C’è da dire che le nostre pecore erano di una razza un po’ speciale, un po’ bizzarre e non era semplice tenerle a bada. Mio fratello Domenico, anche lui pastore e mio predecessore nell’incarico, più volte le aveva smarrite, incorrendo in severe punizioni da parte di papà. A me, invece, non era successo mai di smarrirle. Con il mio piccolo gregge percorsi per lungo e per largo il territorio di Duronia, in cerca di pascoli. Questo andare mi rievoca un senso di libertà infinita. Di solito andavo da solo ed ogni giorno era come una piccola sfida a superare l’incognito e le asperità dei nuovi pascoli. Un po’ alla volta i luoghi diventavano familiari, venivano dominati e si inserivano nel respiro della mia vita.
Questa vita di pastore aveva un suo ritmo giornaliero: al mattino, con l’inizio della primavera, ci si alzava al sorgere del sole e si andava al pascolo per ritornare in tempo per andare a scuola. Dopo la scuola, di nuovo dietro al gregge. A questo punto un’altra attività si univa a quella del pastore: quella agricola. E qui si inserisce un altro personaggio, inseparabilmente legato a questa prima fase della mia vita, un personaggio che portava scolpita in sé, in maniera quasi scultorea, la fatica della sua esistenza: era curva quasi a congiungersi, piedi e testa, con la terra. Ma, quando il suo volto, faticosamente, si alzava e si apriva al sorriso, appariva di uno splendore unico. Questo era il volto di nonna, che noi chiamavamo mammuccia Quartarella, nome che è anche eponimo, nel senso che esprimeva efficacemente quello a cui l’aveva ridotto la fatica della vita. Quando venivo fuori dalla scuola, mamma mi faceva trovare pronta la gavetta con il pasto da portare alla nonna, legata alla lenza d’r’Strpparone o d’l’Trnete a preparare il terreno per la semina o a mietere il grano o cavare le patate, a secondo della stagione.
Così io mi univo a lei in quella landa, in cui si udiva ancora il canto dell’allodola, che seminava le sue melodie in quel cielo cristallino, quando il giallo esplodeva dagli arbusti delle ginestre in fiore. Quando il sole volgeva al tramonto, anche noi convergevamo sulla mulattiera, seminata dalla processione di quelli che come noi facevano ritorno al casolare. Così le memorie dei luoghi si fondono con le memorie dei volti, che, se messi a fuoco, ti trascinano in un’onda di nostalgia infinita e fanno emergere un passato, che sembra sepolto e che invece è vivo, perché è dentro di te e ti accompagna sempre anche se tanti meridiani ti separano dal tuo meridiano originario o se l’arsura dei tropici ti toglie il respiro. Duronia è un nome scolpito dentro e dura anche per chi è strappato verso altre latitudini.