Pesche
Pesche, il paese che muore nell’indifferenza dei nostri amministratori e davanti agli occhi di tutti.
di Franco Valente
15 febbraio 2016
In questi giorni Giovanna Greco si è brillantemente laureata in Architettura con il massimo dei voti discutendo una difficilissima tesi sul Restauro del Castello di Pesche. Insieme ai miei complimenti, l’augurio che l’Amministrazione Comunale non solo voglia pubblicare questo lavoro per dare notorietà ad uno dei più singolari nuclei antichi della regione molisana ma soprattutto perché voglia capire che questo lavoro può essere utilizzato per avviare il suo recupero prima di assistere alla sua definitiva distruzione.
Estratto da Franco Valente, Castelli, rocche e cinte fortificate del Molise (Volume in preparazione) (Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons)
Come tutte le strutture castellane, anche quella di Pesche, ridotta ormai allo stato di rudere, presenta brandelli di elementi architettonici che rivelano una serie di modifiche e di adattamenti avvenuti nel tempo e che non sono facilmente identificabili nella loro collocazione temporale (vedi GABRIELLA DI ROCCO, Castelli e borghi murati della Contea di Molise).
Pesclum ne’ secoli barbari dinotava pietra, macigno. Oggidì nel Contado di Molise è usitatissima la parola pesco o pescone in significato di gran pietra informe. Si diceva pesco e pescone quando il castello era posta in cima di un gran sasso… Pesco d’Isernia, ovvero i Peschi. E’ popolato di 1251 cittadini in diocesi d’Isernia. Si chiamava Pesclum nel XII secolo. Ha 10 cappelle. (G. M. GALANTI 1781).
Con un atto sottoscritto a Teano nel dicembre 985 Ianniperto figlio del defunto Todelgari, di Isernia, e la moglie del defunto Aderico offrono al monastero di San Vincenzo al Volturno le terre e le case, poste entro e fuori di Isernia, già appartenute al defunto Graffolo di Traiso e alla moglie Altrude, site in località “Urgi”, nonché una serie di possedimenti tra i quali …ipsa alia curte et terris ista parte ipso fluvio Cinglone finis habet: de uno lato via antiqua, que decurrit in ipso fluvio, et perexiente per ipsi Pescli in ipsa serra… nelle vicinanze della chiesa di S. Maria (Chronicon Vulturnense).
Potrebbe trattarsi dei possedimenti in agro di Pesce, nei pressi di S. Maria del Bagno. Se così fosse, come certamente è, questa sarebbe la più antica citazione che attesti l’esistenza del nucleo abitato di Pesche.
L’archivio cassinese ci permette di ricostruire con una certa precisione quali siano stati gli avvenimenti più importanti del primo nucleo, anche se nessuno di essi ci aiuta a comprendere come fosse strutturato il nucleo che in tutti i documenti viene definito come castrum.
Importanti appaiono, per la storia amministrativa della regione, le iniziative di Rodolfo, conte di Boiano, che alla metà dell’XI secolo dette inizio alla costituzione del Comitatus Molisii all’interno del quale vennero unitariamente riorganizzate, anche dai successori, tutte le polverizzate micro-contee longobarde e che costituirono l’impianto dell’attuale assetto regionale.
Da una donazione di Rodolfo II a favore di Montecassino abbiamo così la certezza che l’abitato di Valneo, l’attuale Pesche, nel 1092 era già fortificato e difeso da un castello (E. GATTULA, Historia): Io Rodolfo cognomine de Molisio, conte di Boiano sua patria …. ho dato e concesso, insieme a mio figlio Ugo, conte con me, e Ruggero, altro mio figlio, la Chiesa di S. Croce con tutte le pertinenze, dovunque siano poste, la quale chiesa di S. Croce si vede costruita nella contea della città di Isernia in un luogo che si chiama Pescla…. Dono anche il castello che si chiama Valneo, con tutte le sue pertinenze, ossia con le case, con le terre, con le vigne, con le acque, con i molini, con le selve, con le chiese tanto dentro quanto fuori, sia sopra che sotto, con tutto il nucleo fortificato (castrum) sopra detto che io soprascritto Rodolfo comprai al prezzo di duemilaseicento monete in tareni amalfitani d’oro e d’argento da un certo milite di nome Beraldo a cui io e mio figlio Ugo concedemmo il detto castello per un suo competente servizio per il quale disconosco la legittima investitura.
Interessante sembra la successiva bolla di Urbano II che nel 1097 conferma la Chiesa di S. Croce in Isernia al cenobio cassinese.
Una certa importanza per capire se in epoca normanna l’abitato di Pesche esistesse e se, presumibilmente, fosse munito di apparecchiature difensive, assume la citazione del Catalogo dei Baroni dove si nota che Guillelmus de Pesclo tenet Pesclum et Cantalupum a domino Guidone de Guasto quod est pheudum unius militis.
Il fatto che nel Catalogo, fatto redigere dal re normanno tra il 1150 ed il 1168 per una grande leva generale per formare l’armata reale, Pesclum, a differenza degli altri luoghi che si chiamano allo stesso modo, non sia accompagnato da altri appellativi porta a ritenere che si tratti dell’abitato di Pesche e che il personaggio citato fosse abitante di quel nucleo.
L’altra circostanza riferita, secondo cui Guglielmo di Pesche teneva il feudo in subordine a Guidone di Guasto (oggi nel territorio di Castelpetroso), è un ulteriore indizio che ci aiuta a capire che la sua rendita era piuttosto misera se addirittura i due feudi che egli teneva, messi insieme, contribuivano a mantenere per l’esercito reale un solo milite senza neppure un serviente. Quindi la rendita complessiva era calcolabile intorno a venti once d’oro.
Per arrivare a una qualche conclusione logica sull’origine della fortificazione medioevale ci è utile considerare che la chiesa di S. Croce, della quale abbiamo notizie precise già dal 1070, ma alla quale attribuiamo una origine almeno longobarda per la sua originaria intitolazione a S. Michele Arcangelo, è fuori del perimetro murario urbano più alto ed è situata in area del tutto differente da quella della chiesa di Valneo (S. Maria del Bagno) che è nella parte a valle, dove comincia la pianura.
Quindi, nel territorio che ci interessa dobbiamo distinguere un luogo fortificato che, non a caso, prende il nome di Pesclum per essersi integrato alla conformazione naturale del grande blocco calcareo che costituisce la prominenza naturale della montagna. Un secondo luogo, immediatamente esterno, che corrisponde al ripiano naturale su cui si appoggia la chiesa ed il monastero di S. Croce. Il terzo, corrispondente a Valneo, a valle e in area pianeggiante che in antico dava il nome a tutto il territorio di Pesche.
Nel tempo, mentre Valneo è rimasta completamente esterna, i due nuclei di Pesclum e di S. Croce si sono fusi per un processo di ampliamento del nucleo superiore verso il basso, in un periodo che dovrebbe essere successivo alla seconda metà del XV secolo.
Anzi, sembra che dopo la metà del XV secolo vi sia stata una sorta di progressivo abbandono della parte apicale dell’abitato forse proprio per le difficoltà, dopo il terremoto del 1456, di utilizzazione pratica dell’abitato eccessivamente erto e, forse, per l’opportunità di godere di un certo privilegio derivante dalla presenza di una piccola sorgente di acqua proprio nella parte mediana tra il monastero e la parte abitata.
Un abbandono che fu preceduto da un tentativo di adattare la struttura fortificata più antica alle nuove armi da fuoco che nella seconda metà del XV secolo cominciavano a fare la loro apparizione nella terra molisana.
Addirittura, come vedremo, sembra che vi sia stato un tentativo di trasformare un originario mastio, posizionato nella parte apicale del complesso, in una sorta di piccolo bastione.
Qualcosa di particolarmente grave deve essere accaduto a Pesche all’epoca di Urbano VI, che fu Papa dal 1378 fino alla sua morte nel 1389.
Carlo di Durazzo nel 1381 era sceso in Italia dall’Ungheria assalendo con le armi la Penisola, confortato proprio da papa Urbano VI, appartenente alla famiglia napoletana dei Prignano, che lo consacrava come re di Napoli il 2 giugno 1381 spodestando la regina angioina Giovanna.
L’anno seguente il Durazzo, incoronato da Urbano VI con il nome di Carlo III, si incontrava con l’abate di Montecassino e, dopo aver saccheggiato S. Germano e S. Pietro Infine, poneva l’assedio a Napoli che era difesa inutilmente da Ottone di Brunswick, quarto marito di Giovanna.
Nell’anno quinto del pontificato di Urbano VI, nel 1383, nel quadro delle complesse vicende per la conquista del regno di Napoli, Ligorio Carafa milite napoletano assalì il castrum Pesclarum che per pacifico possesso apparteneva all’abate di Montecassino.
Il vescovo di Gaeta, intervenne a difendere i diritti di Montecassino con una petizione presso il papa per denunziare che Ligorio, sebbene fosse un figlio diletto della diocesi, aveva occupato adducendo falsi diritti, con prepotenza e a mano armata il nucleo fortificato di Pesche offendendo quelli che l’abitavano e vi risiedevano e distruggendolo in gran parte e costringendo con la forza quelli che vi abitavano, i residenti e i vassalli a giurare vassallaggio. In quel modo aveva spogliato dei beni l’Abate, il Convento ed il Monastero mettendo in pericolo anche la sua anima ( castrum … armata manu tirannice occupavit, ac demum contra habitatores , et incolas ipsius castri insultum faciens praefatum castrum plurimum devastavit, sibique ab iisdem incolis, et habitatoribus, et vassallis dicti monasteri vassallagium jurari fecit per vim, et metum, qui cadere poterat in constantem, ac eosdem Abbatem, et conventum, ac monasterium dicto castro, et ejus possessione praedicta temere spoliavit in animae suae periculum, et dictum Abbatis, et Conventus, ac monasterii non modicum detrimentum.) (E. GATTOLA,Historia).
Con propria bolla in cui si richiamavano i fatti, il papa Urbano VI nel luglio del 1383 affidava al vescovo di Gaeta di ripristinare de planu, sine strepitu e senza ricorrere a un giudice la situazione precedente.
Nel 1404 l’abate Enrico Tomacelli in occasione di una sua visita al monastero di S. Croce sottoscrive l’inventario dei beni che vengono concessi all’abate del cenobio.
Il terremoto devastante del 1456, che secondo quanto ricorda il Ciarlanti procurò almeno 40.000 morti nel contado di Molise, fece crollare la chiesa di S. Croce e, presumibilmente gran parte dell’abitato.
Sicuramente questa data rappresenta per il nucleo fortificato di Pesche un punto di riferimento preciso per la variazione della struttura urbana e il probabile abbandono della parte apicale del castello e la riconfigurazione planimetrica dell’abitato che fu possibile anche per l’intervenuto esonero dalle tassazioni da parte di Alfonso d’Aragona che inviò a Isernia Troyla de Massa per indagare sugli atti di sciacallaggio succeduti al terremoto.
Una notizia indiretta per capire che il castello alla metà del XVI secolo era ormai disabitato si ha quando d. Vincenzo Spinelli, che si era attribuito alcuni beni in Pesche, provocò una protesta presso il palazzo baronale (iuxta Pesculo et prope edibus baronalis) che ormai aveva sostituito, mettendosi in posizione più comoda, il castello antico (S. TOMMASINI, Sant’Angelo).
Fatto il riepilogo dei fatti salienti che riguardano la storia del castello di Pesche e del nucleo abitato in forma di castrum, non rimane che vedere più da vicino cosa rimane delle antiche strutture difensive.
Nella parte più alta dell’abitato, sfruttando la conformazione naturale della roccia che presenta un ripido scoscendimento sul lato occidentale e un degrado meno ripido nella parte opposta, rimangono i segni di una struttura apicale che, riprendendo la forma di un pentagono irregolare, dovrebbe corrisponde ad un mastio.
Le pareti rettilinee si appoggiano direttamente sulla roccia e quello che sopravvive è appena sufficiente per capire che la facciata rivolta ad occidente, per il fatto di trovarsi dalla parte meno accessibile, non presenta segni di aperture o di feritoie. Dall’altra parte, nel punto di attacco della cinta muraria che si ricongiunge alle mura urbane, si vede con chiarezza il taglio di una feritoia obliqua in maniera da garantire un tiro quasi radente al muro in direzione di una presumibile postierla posizionata sul lato settentrionale verso la montagna. Su tale punto converge anche una seconda feritoia dotata di sottostante toppa circolare, ricavata nel paramento murario del tratto che collega il castello alla prima delle torri circolari attestate lungo la linea esterna della cinta urbana, della quale parleremo più avanti.
Dal mastio, a formare una struttura che complessivamente assume il disegno di un triangolo, partono due brevi tratti di muro che lo congiungono al altrettanti torrioni ad andamento circolare di dimensioni pressoché identiche.
Quello posizionato sul lato più impervio, sul lato occidentale, conserva buona parte dell’elevato e nel suo interno sopravvivono alcuni interessanti elementi che aiutano a capire la sua articolata e polivalente funzione.
Ben riconoscibile è la merlatura apicale realizzata a filo e costituita da setti murari privi di feritoia. Il piano di ronda è crollato, ma gli alloggiamenti delle travi fanno riconoscere il livello del piano di calpestio al quale si giungeva, con molta evidenza, mediante scale in legno probabilmente a pioli.
La torre probabilmente si sviluppava su tre piani e quello mediano, come si capisce dalle tracce rimaste sulla parete circolare, poggiava su un solaio con travi in legno. L’assoluta essenzialità dell’ambiente non ci fornisce indicazioni utili per capire la sua utilizzazione pratica, tuttavia vi si riconosce, oltre la citata finestrella con funzione di cannocchiale verso la piana, anche una sorta di nicchia con sedia di comodo ricavata nella muratura con due gradini dei quali, quello superiore, è dotato di un foro quadrato che fa immaginare che potrebbe trattarsi di un cesso con scarico diretto sulla parte scoscesa della parete rocciosa. Salvo che non si tratti di una scomoda caditoia della cui utilità sarebbe da dubitare.
Tra il torrione e il mastio, nel piccolo tratto di muro è ricavata un’apertura che fa immaginare la possibilità di una sorta di postierla collegata a una qualche struttura lignea retrattile che la collegava alla parte meno accessibile della base del mastio.
Del secondo torrione, posto sul lato orientale, si conserva tutto il vano inferiore, parzialmente scavato o incastrato nella roccia, originariamente coperto da una volta a catino in pietrame.
Non si capisce bene la funzione di tale vano, ma non è da escludere che funzionasse anche da cisterna per la raccolta delle acque meteoriche e che vi si potesse accedere attraverso una sorta di scomodo vano verticale laterale in forma di pozzo di cui si conservano i segni.
La roccia naturale affiorante sul ripiano che collega i due torrioni attesta che essa corrisponda al piano inferiore del castello e che superiormente si sviluppasse una grande sala che aveva il proprio solaio in legno allo stesso livello del piano naturale di appoggio del mastio.
Dal castello partiva la cinta muraria che complessivamente chiudeva la parte più protetta dell’abitato di Pesche. Dall’esame planimetrico si ricava che i suoi costruttori si siano posto il problema della regolarizzazione di una parte di territorio particolarmente scosceso e che abbiano tentato di ridurre tutto l’abitato ad un impianto di forma quadrilatera con due lati, quello superiore e quello inferiore, sostanzialmente paralleli, secondo l’allineamento naturale corrispondente a due curve di livello parallele. Le altre due linee, invece, tendono a divaricarsi in direzione della valle seguendo a occidente il forte scoscendimento naturale che determina una solida difesa che non ha bisogno di torri intermedie e ad oriente con una linea più dolce e più facilmente attaccabile.
La linea muraria così definita planimetricamente è stata potenziata nei punti più deboli con l’apposizione di una serie di torri circolari, tutte collegate tra loro da un piano di ronda.
Tali torri si trovano tutte posizionate sul lato settentrionale e su quello orientale, in numero complessivo di quattro, l’ultima delle quali è posta dove il muro piega per assumere l’andamento parallelo a quello settentrionale.
Questa parte di muro è oggi completamente scomparsa alla vista per la sovrapposizione delle case dal momento in cui aveva perso la sua funzione difensiva, tuttavia, essendo attestato sulla linea di massima pendenza, di fatto non aveva bisogno di un sistema di torri intervallate.
Su questo lato si apre la porta da basso che è ricavata ortogonalmente alla linea muraria in maniera da determinare un sorta di sistema analogo a quelle delle porte scee. In tal modo la strada di accesso era controllata dall’alto dal muro che anticipava la porta da occidente e la porta stessa che sicuramente aveva una serie di feritoie capaci di offendere chi si fosse avvicinato venendo di fronte.
Una seconda porta, che ancora oggi prende il nome di portella, permetteva di uscire verso la montagna passando per un sentiero che è controllato dal mastio inaccessibile del castello. Il sistema di difesa totalmente scomparso nella parte apicale inglobata nelle superfetazioni successive, era integrato da due feritoie che ancora sopravvivono su due lati della porta.
Nel tratto che parte dal mastio verso oriente, la totale assenza di setti murari sul lato interno del paramento murario e la presenza di un articolato sistema di alloggiamenti di travi che non attraversano l’intera sezione della muratura (e che quindi non sono buche pontaie) induce a ritenere che i camminamenti che collegavano le torri di difesa poggiavano su strutture aeree in legno che seguivano i dislivelli delle merlature, tutte a filo con la muratura di base e quindi prive di beccatelli e caditoie.
La totale assenza di una muratura a scarpa, salvo quello che rimane di un rinforzo di epoca più tarda nei pressi del mastio, lascia intendere che tutto l’apparato difensivo possa essere ricondotto alla fase tarda dell’epoca normanna, in un periodo che può essere collocato intorno alla metà del XII secolo.
Non è da escludere che il sistema delle torri sia stato sovrapposto ad una originaria murazione più antica di almeno un secolo, e quindi riferibile alla prima fase del dominio normanno in un’epoca che approssimativamente possiamo collocare alla fine del XI secolo
La presenza di feritoie munite di sottostante toppa circolare potrebbero trarre in inganno circa la datazione delle torri medesime, ma un attento esame della loro forma, della loro posizione e dei materiali lapidei usati fanno intendere che la toppa, adatta al tiro degli archibugi, sia stata inserita in un’epoca successiva che noi, tenendo conto dell’abbandono di tutto il sistema castrense dopo il terremoto del 1456 , possiamo collocare nella prima metà del XV secolo.
di Franco Valente