Cultura e globalizzazione
Il XX secolo cancella l’illusione della sovranità nazionale e segna l’inizio dell’era della globalizzazione
di Umberto Berardo
23 febbraio 2016
Il concetto di cultura nella storia dell’umanità, dalla “Paideia” greca all’Umanesimo, al Razionalismo illuminista fino al Multiculturalismo delle diaspore, ha definito fondamentalmente l’insieme delle cognizioni intellettuali e delle pratiche acquisite capaci di portare la persona alla propria formazione, alla capacità creativa ed alla partecipazione attiva alla vita sociale.
Ovviamente l’insieme delle conoscenze, delle consuetudini, dell’arte, dei costumi e delle pratiche di vita può essere considerato sul piano individuale, ma viene visto prevalentemente a livello di gruppo etno-culturale cui il singolo appartiene e nel quale si riconosce.
In linea di massima crediamo si possa affermare che la cultura, modo di pensare, di produrre e di essere di una persona e di una collettività, per secoli sia stata espressione di un’aristocrazia intellettuale costituita dalle cosiddette “classi colte” che avevano il compito di elaborare prodotti materiali ed immateriali utili a mantenere sostanzialmente la struttura esistente della società fondata sul potere elitario e forti differenze di classe.
Nel recentissimo saggio “Per tutti i gusti: la cultura nell’età dei consumi” per le edizioni Laterza Zygmunt Bauman prova a tracciarne un interessante percorso storico.
Secondo il sociologo polacco solo con l’Illuminismo la cultura esce da una funzione socialmente conservatrice per divenire un agente di cambiamento per la costruzione dello Stato-nazione, anche se l’elitismo culturale persiste sia a livello di classe che di etnia pur nella contestuale affermazione delle idee di libertà e di nazionalismo.
Con il XX secolo scompare l’illusione della sovranità nazionale ed entriamo nell’era della globalizzazione con i vari processi delle migrazioni che stanno portando ad un multiculturalismo che attualmente è solo accettazione delle differenze senza pieno riconoscimento della dignità di ogni sistema culturale che deve entrare non nella logica dell’assimilazione colonialista, ma in quella del dialogo multicomunitario fondato ovviamente sul riconoscimento pieno dei diritti universali della persona da parte dei gruppi etnici.
Questo dev’essere il criterio per affrontare criticamente ogni forma di relativismo o di nichilismo culturale, riuscendo possibilmente a definire anche aspetti di universalità condivise.
Bauman sottolinea in merito che “L’universalità dell’umanità e il rispetto per realistici diritti di cittadinanza sono precondizioni per qualsiasi sensata politica del riconoscimento delle differenze”.
Oggi, sostiene ancora l’autore, le istituzioni politiche rimangono localizzate, ma il potere, affidato alle forze del mercato produttivo e finanziario, diviene extraterritoriale e non più controllabile dalle prime che non riescono a realizzare alcun modello di giustizia sociale, riducendo a larve perfino il diritto alla libertà e l’istituto della democrazia.
Alle élite intellettuali, dunque, si stanno sostituendo quelle finanziarie e manageriali dalle quali, secondo Cornelius Castoriadis, occorre difendere la cultura sul fronte dell’omologazione oppressiva e su quello del disimpegno del popolo.
Ora in una società liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, noi dobbiamo evitare che continuino ad esistere culture egemoniche che prevarichino altre subalterne ed impossibilitate ad affermarsi, come ha sostenuto lucidamente Antonio Gramsci, evitando che il colonialismo penetri in profondità l’area culturale e determini quello che Pierpaolo Pasolini chiamava il processo di acculturazione.
C’è ancora la questione della difesa del pluralismo delle proposte, dell’offerta e delle modalità di mediazione per portare le creazioni culturali al pubblico.
Oggi questi mezzi, un tempo appartenenti a ricche famiglie aristocratiche o allo Stato, sono quasi completamente nelle mani di un nuovo ceto di manager i quali dirigono il mercato dei consumi attraverso forme mediatiche di pubblicità e promozioni o gestiscono i cosiddetti “eventi culturali”.
In tale tipo di struttura riesce ad entrare solo chi ha mezzi economici o patrocinatori adeguati; tutti gli altri sono esclusi da un mercato sempre più monopolistico che favorisce la cultura d’elite evitando che ci siano manifestazioni creative ed idee impossibilitate ad affermarsi.
Le conclusioni pratiche più adeguate sul futuro delle pari opportunità nella cultura europea e mondiale a noi sembrano quelle di Anna Zeidler-Janiszewska, riportate nelle pagine finali del volume citato di Bauman.
La ricercatrice così argomenta ” se distinguiamo la cultura artistica ( in quanto ‘realtà mentale’ ) dalla pratica della partecipazione ad essa ( partecipazione creativa e ricettiva – meglio, oggi: partecipazione creativo-ricettiva o ricettivo-creativa ) e dalle istituzioni che rendono possibile tale partecipazione, allora una politica culturale di Stato dovrebbe occuparsi delle istituzioni di partecipazione ( che comprendono i media ‘pubblici’ ) e la sua preoccupazione principale dovrebbe essere di parificare le opportunità di partecipazione (…). Qualità e pari opportunità di partecipazione: in altre parole, il punto focale della politica culturale sono i ‘ricettori’ , ovvero le relazioni tra gli ‘amministratori’ e il ‘pubblico delle arti’ , piuttosto che il contenuto e la forma” .
Creare per gli operatori culturali pari opportunità d’incontro con i fruitori delle loro opere non è cosa facile in un mondo che si sta progressivamente verticalizzando e riesce a creare caste chiuse che diventano le uniche fruitrici dei sistemi pubblicitari.
Vogliamo dire che anche la cultura, entrata pienamente nel mercato, tende a trasformare i fruitori in consumatori a pagamento, mentre è sempre più difficile trovare in essa il concetto di trasmissione gratuita, almeno per le opere di recente produzione.
Come rimarca opportunamente Hannah Arendt, il compito della cultura, fuori da improvvisazioni povere ed inutili come spesso ne esistono un po’ ovunque, ma soprattutto nel web, è tenere viva la ricerca perché sappia produrre sempre quanto, resistendo nel tempo, possa aiutare la persona nella libertà e nella responsabilità delle scelte di vita.
di Umberto Berardo