PASCOLO: PAESAGGIO NATURALE O ANTROPICO?
Vi sono diversi tipi di allevamento bovino, ovino, caprino, ecc. e così differenti zone di pascolamento. Solo per quelli di montagna si può parlare di pascoli naturali
di Francesco Manfredi Selvaggi
14 marzo 2016
Il pascolo è l’attività tipica della montagna, più del taglio dei boschi. Anzi l’immagine dei prati in altura con le mucche che brucano è la rappresentazione per così dire plastica del monte, almeno nell’Appennino dove è meno rilevante la presenza di pareti rocciose. Qui si pascola anche perché non è possibile fare altro, a causa del clima rigido e, salvo che negli altopiani, delle pendenze del terreno, cose che non permettono la pratica dell’agricoltura; in verità, prima della grande emigrazione degli anni ’50 del secolo scorso per la fame di terre si coltivavano le patate a circa 1000 metri alle Pianelle, poco prima di Campitello. L’affermazione che la pastorizia è la vocazione precipua delle zone in quota non viene smentita neanche dall’osservazione che nell’alto Molise gli abitati stanno sopra i m. 1000 perché essi si configurano quali centri pastorali.
Il fatto che la conduzione delle bestie al pascolo, al fine di ridurre il personale di sorveglianza, è vantaggioso che avvenga in maniera comunitaria ha fatto si che, al momento dell’eversione del feudalesimo, i territori montani venissero assegnati all’Università dei cittadini e, cioè, ai Comuni. Le aree a pascolamento poste al di sopra del limite altitudinale della vegetazione arborea sono pascoli in senso stretto ovvero pascoli primari, non frutto della eliminazione del bosco come si è verificato più in basso a cavallo tra XVIII e XIX secolo sotto la spinta dell’esplosione demografica per far fronte alla quale, agli aumentati bisogni alimentari, era necessario altro suolo coltivabile. Possiamo distinguere, in definitiva, pascoli naturali, in alto, e semi-naturali (come li definisce il sistema di catalogazione europeo Corine) quelli presenti nell’ambito collinare. Vi è una diversità nell’estensione, ma anche nella composizione floristica particolarmente ricca nelle praterie sub-montane, tanto che alcune di esse sono state riconosciute quali Siti di Importanza Comunitaria, addirittura di interesse straordinario quando al loro interno viene riscontrata la fioritura di orchidee. Si tratta, per quelli sui monti, di pascoli comunque temporanei, utilizzati nella stagione estiva durante l’alpeggio e poco più in quanto ricoperti di neve (si spera!) negli altri periodi dell’anno e allo stesso modo venivano sfruttate per breve tempo le larghe strisce erbose lungo le quali le greggi effettuavano la transumanza.
Prati gli uni e prati gli altri che determinano due paesaggi completamente diversi, quello della montagna e quello dei tratturi. Per ambedue le forme di pastorizia, quella della manticazione e quella transumante, siamo di fronte a un allevamento estensivo, con gli animali pressoché allo stato brado o, per il loro spostamento tra Abruzzo e Puglia, vagante secondo i ritmi di un seminomadismo stagionale. Sono entrambi sistemi pastorali che sono in perfetta sintonia con l’ambiente, capaci di assicurare stabilità agli ecosistemi e, di conseguenza, la conservazione dei caratteri paesaggistici. Ben diversa è la situazione che si va progressivamente aggravando dovuta all’incremento dei cinghiali, animale selvatico che si nutre pure di specie vegetali, il cui numero cresce nei comprensori in cui si afferma ormai l’incolto. I cinghiali che frequentano anche le parcelle coltivate sono aumentati per l’arretramento dei coltivi, oltre a costituire una minaccia all’incolumità di coloro che vivono in campagna provocano degrado idrogeologico per l’estirpazione delle radici e per il sommovimento di zolle di terra con il calpestio, rischio ancora non calcolato. Non è che sino ad adesso non si sia avuto bestiame diciamo vegetariano fuori dei pascoli veri e propri, in superfici forestali oppure coperte da arbusti, dalle capre che si arrampicano su rami o sulle rocce ai suini (quelli della razza cinta senese che un imprenditore del posto intende allevare a Carpinone) per difendersi dai quali gli Statuti Comunali di tanti paesi molisani emanati nel 1.500 prevedevano l’istituzione di apposite «Difensa dagli Porci», agli ovini che essendo frugali si accontentano della coltre arida, sassosa della parte culminale dei rilievi montuosi lasciando ai bovini le distese prative più ricche, è solo che si è sempre cercato di contenere i quantitativi in rapporto alle risorse alimentari disponibili e al contesto ambientale.
Tra gli animali domesticati, i quali si sottolinea hanno sempre convissuto con l’uomo, vi è stato uno spostamento dalle pecore ai bovini a partire dall’abolizione della transumanza nel 1805 e ciò non può non aver avuto conseguenze sul paesaggio. Con le innovazioni agrarie iniziate alla fine del ‘700, epoca cui già si è fatto riferimento, e, in particolare, con la rotazione delle colture che non contempla l’anno di riposo nel quale gli animali potevano entrare nell’appezzamento, si è modificato completamente l’allevamento. I buoi necessari quale forza motrice degli aratri e, con le loro deiezioni, fornitori di «fertilizzante», il letame, vengono allevati in stalla o in pascoli recintati vicino alla sede dell’azienda agricola; vale la pena mettere in risalto la novità del recinto che è il simbolo del passaggio dalla vecchia economia dei «campi aperti» a quella dei «campi chiusi» in temine inglese enclosure dalla quale si fa iniziare, proprio cominciando dall’Inghilterra, la rivoluzione industriale. Nell’avvicendamento triennale delle colture vi sono anche le foraggere con le quali vengono cibate le vacche stabulate ad integrazione del pascolo la cui rigogliosità dipende dal ciclo vegetativo delle piante. Si è parlato di recinti i quali sono tra i segni maggiormente riconoscibili delle aree pascolive (pure nella transumanza si utilizzavano recinzioni le quali fatte da semplici reti erano leggere e portatili), si pensi agli ovili, insieme agli abbeveratoi (sul Matese addirittura cisterne per la raccolta delle acque di scioglimento delle nevi, vedi Cul di Bove, e, a Campochiaro all’opposto pietre incavate in cui questo bene così prezioso viene accumulato così che, per l’appunto,
Arca di Pane è chiamato un masso simile a Roccamandolfi), ai ricoveri pastorali e ai ripari per gli animali, spesso sfruttando delle pieghe del terreno, delle cavità naturali (la grande caverna alle spalle dell’eremo di S. Michele a Foce a Castel San Vincenzo). Tali strutture, costantemente poco evidenti sotto l’aspetto visivo, sono rimaste immutate da millenni ed oggi, è evidente, occorre adeguarle in modo da tener conto dell’evoluzione tecnologica (non più capanne in pietra o in legno) e delle moderne esigenze funzionali, avendo cura, nello stesso tempo di mimetizzarle, magari con frascame giustapposto, evitando manufatti vistosi che comprometterebbero la leggibilità delle zone a pascolo le quali sono connotate percettivamente da una libera spazialità.
di Francesco Manfredi Selvaggi