• 30 Marzo 2016

Postumanesimo

La creazione dei cyborg, come ibridi tra organismi umani e macchine in grado di avere autoregolazione e componenti aggiuntive rispetto a quelle naturali, ci porterebbe ad un’esistenza molto diversa rispetto a quella cui siamo abituati a pensare

di Umberto Berardo

30 marzo 2016

Se l’Umanesimo dalla fine del XIV secolo è stato il tentativo, attraverso lo studio della cultura classica, di dare dignità all’essere umano e di porlo al centro della natura e della società, definire oggi il concetto di postumanesimo è davvero arduo.
C’è chi ad esempio nel rapporto con il digitale vede pericoli per le capacità umane e perfino di superficialità culturale o addirittura di incultura determinata dalla ricerca di dati veloci e di un’espressione per slogan piuttosto che da una ricerca critica e da una comunicazione organica.
Rimane il fatto che nel rapporto tra persona e tecnologia si determina una concezione nuova dell’essere umano rispetto alla quale quella dell’Umanesimo rischia per tanti aspetti di apparire superata e talora reazionaria.
Sulla questione troviamo interessante il volume di Paolo Benanti “The Cyborg. Corpo e Corporeità nell’epoca del postumano” edito da Cittadella Editrice.
Partendo dall’idea che l’essere umano abbia difficoltà spesso a gestire la complessità sociale, scientifica e tecnologica da lui stesso prodotta, il Postumanesimo, o Transumanesimo che dir si voglia, negando un’idea immutabile di uomo e di umanità, prova a fissare in maniera storicistica il rapporto tra l’essenza e le capacità attuali dell’essere umano, immaginando e scoprendo le loro possibili relazioni con ambiti scientifici e tecnologici capaci di adattare la persona alle variazioni ambientali e di espanderne le funzioni attuali.
La creazione dei cyborg, allora, secondo la definizione di M.E.Clynes e di N.S.Kline, come ibridi tra organismi umani e macchine in grado di avere autoregolazione e componenti aggiuntive rispetto a quelle naturali, ci porterebbe ad un’esistenza molto diversa rispetto a quella cui siamo abituati a pensare.
Modificare una persona attraverso l’intervento della scienza, della medicina, dell’ingegneria o della cultura è possibile sul piano delle funzioni, ma anche per migliorare la natura emozionale rendendo ciascuno meno aggressivo e violento e sempre più pacifico e creativo.
Attraverso la biologia, la nanotecnologia, l’informatica e l’intelligenza artificiale diversi scienziati sostengono ci sia la possibilità reale, attraverso sistemi hard e soft con macchine, farmaci e molecole, di aiutare l’umanità a superare i limiti dell’esistenza migliorandone la qualità.
I cyborg nelle future generazioni miglioreranno così la fisiologia, ma anche il materiale genetico e la sensibilità.
La neurofarmacologia darebbe poi la possibilità di migliorare le prestazioni intellettuali e di favorire una più adeguata percezione,  immaginazione e creatività.
È chiaro che i campi di applicazione della cibernetica sono così vasti che taluni interventi di bioingegneria lasciano perfino pensare alla possibilità che diverse facoltà umane siano nel tempo possibili oltre la materiale esistenza del corpo umano.
Il cyborg è sicuramente un ibrido in parte già realizzato dalla tecnologia, come nel caso degli insegnanti robot già operanti in Giappone; per il resto appare frutto dell’immaginazione creativa della cibernetica, di cui certe realizzazioni sono ancora fantascientifiche.
Le prospettive, che certo potrebbero anche rivelarsi errate in più di un caso, come spesso già avvenuto, diremmo tuttavia che appaiono allo stesso tempo sbalorditive, allettanti, ma anche preoccupanti per l’antropologia che ci viene prospettata e che spesso non ha punti di chiarezza per diversi aspetti, soprattutto in relazione a tecnologie emergenti come l’ingegneria genetica.
Il principio di precauzione, presente nei movimenti ambientalisti, potrebbe razionalmente essere applicato anche agli sviluppi delle ricerche tecnologiche.
Quello su cui vorremmo riflettere è che tutte le scienze collegate a determinate concretizzazioni, come a modifiche di espansioni e potenziamenti delle attività umane, soprattutto sul piano del Dna, avvengano senza recare danni per la persona e senza discriminazioni ed ineguaglianze connesse alla situazione sociale, perché è facilmente immaginabile che i costi di tali applicazioni scientifiche ed ingegneristiche non siano accessibili a tutti.
Tale riflessione di carattere etico e politico ha, a nostro avviso, una rilevanza enorme perché attiene alla dignità della persona umana ed alla necessità che ognuno abbia le stesse possibilità di accesso a qualsiasi tecnologia capace di rendere migliore la qualità della vita.
In un’intervista su “La Civiltà Cattolica” del marzo 2015 lo stesso P: Benanti si chiedeva “Perché in un contesto di scarsità di risorse noi stiamo orientando il progresso tecnologico verso prodotti che andranno a prendere di mira pochi per farli stare meglio e stiamo ignorando i bisogno di tanti? Perché l’ultima frontiera tecnologica è una pillola che fa aumentare le prestazioni ai più ricchi rampolli delle università americane e la ricerca sull’Aids non interessa più?”
Sono questioni che da altri non abbiamo visto sollevate adeguatamente negli studi sul Postumanesimo e che invece vanno poste ovviamente soprattutto sul piano culturale, giuridico e politico, perché l’essenza di fondo di un’antropologia accettabile non può che essere quella legata ai diritti fondamentali dell’uomo che tanto tempo abbiamo impiegato nella storia per definire e che purtroppo ancora non riusciamo a rendere effettivi per ogni essere umano come testimoniano i tanti episodi di soggezione, ineguaglianza e discriminazioni che li negano in tante parti del mondo.
Ci sembra allora evidente la necessità di costituire organismi istituzionali internazionali in grado di garantire una governance nell’uso delle biotecnologie perché esse siano indirizzate sempre alla ricerca oggettiva del bene.
Quello che francamente ci auguriamo è che il neologismo “Postumanesimo” non significhi, come taluni vorrebbero, l’eliminazione della centralità dell’essere umano nella storia.

di Umberto Berardo