Primo Maggio 2016
I figli derubati del futuro, derubati del lavoro
di Nicola Picchione
02 maggio 2016
Era severo, forte, ritmato, deciso. Esprimeva la dignità e il ruolo sociale fondamentale dei lavoratori. Il loro inno era cantato a una voce con orgoglio il primo Maggio, la festa del lavoro. Di tutto il lavoro anche di quello per secoli umiliato. Questa mattina in TV un lamento lento e piagnucoloso di una chitarra elettrica lo ripeteva quasi vergognandosene. Non più un inno con pugno chiuso e alto a rivendicare i propri diritti ma una timida voce elettronica quasi strisciante. E, poi, la cerimonia a Piazza S. Giovanni, sempre più una festa paesana di ricchi o quasi ricchi cantanti a consolare un popolo di delusi. E discorsi retorici e urlati di sindacalisti ormai comparse impiegatizie.
Il lavoro: condanna dell’ uomo (ti guadagnerai il pane con sudore) ma anche una faticosa lenta conquista della libertà e della dignità. Il lungo cammino del lavoro: da schiavitù, da fatica per sopravvivere a conquista sociale e riconiscimento di diritti . Sembrava esaurita la lotta di classe; sembrava ad alcuni che i lavoratori avessero ottenuto addirittura più di quanto loro spettasse privando il datore di lavoro di un diritto, quello di licenziare a suo piacimento. I sindacati accusati di prevaricazione e messi in guardiola. Secoli, millenni di sfruttamento del lavoratore privo di ogni diritto, mal remunerato, tenuto in un ghetto nel quale la sopravvivenza costringeva al lavoro minorile, alla mancanza di assistenza, alla condanna all’ignoranza che è catena dell’obbedienza. Poi la rivendicazione dei diritti, lenta faticosa, contrastata e temuta, talora mascherata da concessione.
Il lavoro come bene comune, come diritto sostenuto da regole, come fondamento della nostra Repubblica. Diritto in se stesso senza il quale il lavoratore è semplice strumento, senza il quale è umiliato e sottomesso. Il lavoro non più fatica insensata e malpagata. Alternato al riposo, a quell’ ozio elogiato da Bernard Russell perché dedicato alla persona e ai rapporti personali, alla cultura. Favorito dal progresso tecnologico che permette di produrre più con meno lavoro a vantaggio non di pochi ma di tutti. Il capitalismo sa produrre – sempre più- ma non sa distribuire- sempre meno.
Quando un popolo è governato a lungo con strumenti che lo distolgono dal progresso culturale e dalla conoscenza; quando è eretto il totem dell’ arricchimento senza limiti e senza merito ottenuto talora con la furbizia se non col latrocinio e la corruzione; quando uno Stato si fa complice di avventurieri incapaci umiliando la professionalità, le capacità imprenditoriali, il lavoro; un popolo regredisce, perde la libertà e la dignità. Si abitua, si adagia. Reclama non più pane e lavoro ma esige benessere senza più costruirlo. Allontana il lavoro per poi rendersi conto dell’ inganno.
Uno Stato che forma professionisti e li costringe a emigrare; che finge di accogliere una moltitudine di stranieri e li relega in ghetti o li rende schiavi del caporalato e delle delinquenza organizzata; uno Stato nel quale la raccomandazione sostituisce il diritto e deforma il mondo del lavoro, nel quale il raggiro vince sulla competenza, la corruzione scaccia la competizione, tutto il mondo del lavoro inaridisce. Uno Stato nel quale sempre più la ricchezza è maldistribuita e sempre più concentrata in poche mani peraltro incapaci di creare lavoro; uno Stato sottomesso a una burocrazia paralizzante; che tollera soprusi che cede a una finanza aggressiva e improduttiva; incapace di combattere la delinquenza organizzata, diventa uno Stato costruito sulla sabbia nel quale i suoi cittadini sono o servi o diventano ribelli.
I figli hanno molto da rimproverare ai padri che non hanno rispettato la linea dei loro padri segnata al nascere della Repubblica. Si sono lasciati- la generazione che ha preceduto i giovani di oggi- ingannare da un mondo che apprezzava le ricchezze soprattutto se costruite senza lavoro, ritenendo il lavoro e lo studio merce di scarto, illudendosi che le conquiste dei loro padri – la generazione nata con la Repubblica- fossero perenni e non fragili e da difendere. I figli hanno da rimproverare ai padri di avere abbassato la guardia, di avere ceduto a compromessi le cui conseguenze ricadono su loro, i figli derubati del futuro, derubati del lavoro.
Si riteneva esaurita la lotta di classe ma essa è destinata a risorgere e rinvigorire con asprezza soprattutto se la classe lavorativa ha di fronte nuovi padroni che non abitano più nei luoghi di lavoro ma in lontani palazzi, in piccole Versailles da dove dettano regole. Le loro regole.
Questa non è una festa del lavoro: è una festa al lavoro. Una condanna per tutti anche per i privilegiati: i virus che parassitano un corpo sino a portarlo alla morte non si rendono conto che alla fine condannano anche se stessi.
di Nicola Picchione (da pasqualedilena.blogspot.it)