Due passi in Molise – Tappa XX
Diario nel cammino nella regione che (non) c’è
di Maria Clara Restivo e Giulia Rabozzi
10 maggio 2016
31 agosto/1 settembre 2015 – Larino-Casacalenda. Tappa XX
Marcello non ha quasi chiuso occhio, preoccupato per l’incidente mortale avvenuto sotto casa questa notte. Anche Valentina è sveglia, la voglia di partire ha vinto il sonno vacanziero. Mentre assaggiamo le loro marmellate davanti a un caffè, lei ci parla con gli occhi un po’ gonfi ma pieni di sole. In cammino affrontiamo subito una lunga salita, il loro passo è svelto, l’enorme luna piena gioca a nascondino nel cielo terso: siamo felici ci siano di nuovo le colline. Speriamo però non sia tutta così. Infatti dopo un po’ l’asfalto lascia spazio al brecciato e alla terra più o meno battuta e i pendii si fanno più dolci. Come le mele limoncelle, ormai quasi mature, che assaggiamo assieme a prugne, more selvatiche, nocciole e mandorle che Marcello apre con i sassi, come un buon papà: una gustosa seconda colazione, in compagnia di gruccioni e gru che volano incuranti del nostro passaggio. Una fontana riporta una scritta incisa nella pietra: “1927 – NON SPORCARE”. Ma in ottantotto anni l’analfabetismo sembra dilagare: è una fortuna che questi sentieri non siano molto praticati. Qualche rifiuto lungo la strada asfaltata, come al solito, come dappertutto in Italia, poi viriamo di nuovo verso la campagna. Fa caldo, ma nella natura c’è più sollievo. E poi, come scrive Marcello, “abbiamo osservato le linee guida del Molise: i solchi della terra arata e seminata, delle stoppie di un grano che è già pane. Siamo stati in compagnia del Cigno che non è un uccello, ma anche di veri volatili. Finalmente vediamo sul monte la meta, ma non è il monte La Meta”. Sì, il sapore di questo cammino lo dà la strada, l’aroma persistente degli incontri, la profondità degli sguardi, la meraviglia dei paesaggi gustata attraverso gli occhi saturi di sudore e gioia.
Casacalenda però è al termine di una salita che spezza il fiato e le gambe. Nonostante la fatica, Marcello ha anche la forza di incitarci e scherzare: è veramente un vulcano, una “fonte”, come lo definisce Dora, ancora dopo venti anni di vita insieme. Una signora si affaccia al balcone per chiederci se abbiamo bisogno di qualcosa. No, grazie, proseguiamo fino all’ombra, dove restiamo seduti qualche minuto, poi ci rinfreschiamo al bar e scopriamo due paradisi, uno dietro l’altro. C’è un caseificio in cui assaggiamo mille prelibatezze e la regina dei sapori, una burrata ripiena di stracciatella. Giulia non resiste e, in mancanza di pane, fa scarpetta con una fetta di scamorza tartufata. Una volta a Torino, sarà il caso di controllare il colesterolo. L’altra oasi è un negozio di sapori molisani: – conserve sott’olio, vini, composte, di tutto e di più - dal quale ci facciamo spedire le scorte per l’inverno gianduiotto.
Un ultimo abbraccio, poi le strade si dividono. La nostra ci porta a fermarci qui a Casacalenda, a ritrovare vie già percorse tre settimane fa, a riorientarci e iniziare a esplorare un po’ più a fondo questo paese. Chiediamo a qualcuno di suonarci il bufù, “domani mattina, alle dieci al bar centrale”. Una sola passeggiata e già tutti ci fanno un cenno di saluto, come se ormai fossimo del posto. Basta poco per sentirsi parte di una comunità, di una grande famiglia. Con tutto il bello e il brutto dello stare insieme, sempre. Beviamo questa sensazione come una bibita ghiacciata, a piccoli sorsi.
Rino si presenta puntuale, l’indomani. Noi siamo già al secondo caffè: il nostro orologio biologico si è sincronizzato sui tempi del cammino, anche quando ci fermiamo. Con lui e Andrea ci muoviamo verso il municipio, dove salutiamo il sindaco come vecchi amici in fondo, la nostra prima colazione in terra molisana ce l’ha offerta lui e visitiamo il museo di arte contemporanea e quello del bufù. È strano e piacevole vedere come tali opere d’arte si innestano nella pietra storica di questo paese: oltre a quelle racchiuse nel museo, infatti, alcuni artisti hanno disseminato il centro storico di sculture che gettano un nuovo sguardo sulle tradizioni locali. È ciò che fa anche Rino nel “covo dei briganti”, una vecchia cantina dove lui e il suo gruppo di musici danno vita nuova agli strumenti della loro tradizione, affiancandone altri più moderni, rivoluzionando il modo stesso di fare musica popolare e rivisitando anche molti grandi classici della musica più “commerciale”. Prepara, suona e ci fa provare il bufù; poi ci accompagna in macchina a vedere fontane, statue e ci spingiamo fino al convento di S. Onofrio nella campagna vicina a Casacalenda, mentre il CD dei Briganti salta da una canzone all’altra. È un passaporto speciale quello del viaggiatore, ci concede “quella libertà speciale che ha solo un uomo di passaggio”: il distacco dalle cose, la sfrontatezza del saper chiedere, l’accontentarsi di quello che c’è ma anche di ciò che manca. Riusciamo quindi a entrare nella chiesa in ristrutturazione. Conosciamo Fernando, il falegname che si sta occupando dei lavori, ex ferroviere in pensione che con le sue mani sta riportando in vita un armadio del 1722. Perché ne vale la pena.
Nel pomeriggio andiamo alla ricerca di Carmine, vigile camminatore, che ci accompagna a vedere il sentiero che prenderemo domattina. Carmine è un uomo disincantato, che pensa alle cose ordinarie come straordinarie, che si accontenta di vivere in pienezza ciò che ha. È un tragitto breve, sono solo quattro chilometri nei quali però ci inoltriamo nelle profondità dell’uomo, non uno qualunque, ma del nostro esserlo: uomini. E ci raccontiamo la vita, quella sempre più scelta perché man mano che si cresce è così. Carmine ha percorso a piedi due Santiago e, appena i turni glielo concedono, va a camminare le sue colline in solitaria. Forse perché per avere a fianco un uomo come lui ci vuole il coraggio di guardarsi dentro. Solo Marcello l’ha accompagnato, una volta.
Video del giorno:
di Maria Clara Restivo e Giulia Rabozzi