Il rapporto dei giovani con la fede
Indagini di natura giornalistica in Molise hanno posto in evidenza il fenomeno dell’abbandono della pratica religiosa da parte dei fedeli cattolici in tantissime parrocchie
di Umberto Berardo
13 maggio 2016
I dati al riguardo sono così allarmanti che perfino i riti di Natale o della notte di Pasqua in qualche parrocchia vedono l’assenza di tanta parte del popolo di Dio in chiesa.
Partecipare alla Messa domenicale e vedere tra i banchi soprattutto anziani, per lo più di sesso femminile, è ormai pressoché consueto.
Il distacco ormai abituale non riguarda solo taluni riti come i tridui, le novene o le processioni, su cui occorrerebbe fare una profonda riflessione in ordine alla funzione ed alle modalità di svolgimento, ma addirittura la stessa celebrazione eucaristica feriale e festiva.
La fascia di età coinvolta è soprattutto quella dei giovani che vanno dai quattordici ai trent’anni.
I ragazzi continuano a frequentare la parrocchia dopo il battesimo e la prima comunione, ma se ne allontanano dopo la cresima.
Fermarsi ad un’osservazione numerica di un tale segnale è evidentemente banale e poco utile.
Recenti dati in merito emergono dalla interessante ricerca condotta in Italia dall’Istituto Giuseppe Toniolo, che ha dato vita alla pubblicazione “Dio a modo mio: giovani e fede in Italia”, e da un lavoro di ricerca dell’Issra di Assisi.
Nonostante il campione intervistato non sia molto numeroso, ma territorialmente proporzionato in tutta la penisola, sono presenti elementi che aiutano sicuramente ad avere un quadro sociologico e religioso più utile ad analizzarne aspetti, cause e prospettive.
I ragazzi cattolici convinti e praticanti sono una minoranza che ruota intorno al 20%, mentre tra i loro genitori la percentuale è di circa il 50% e tra i nonni dell’80% .
A parte gli atei ed i non credenti, tra i giovani battezzati che si allontanano dalla pratica religiosa potremmo distinguere una minoranza che non ricerca alcun riavvicinamento alla Chiesa ed una stragrande maggioranza che potremmo definire agnostica nel senso di un insieme di soggetti con un distacco dalla comunità cristiana di tipo intellettuale e perfino teologico, ma sicuramente in ricerca di un cammino personalizzato di fede.
Solo il 5% dei ragazzi dichiara di leggere abitualmente i testi sacri, mentre circa il 70% asserisce che la religione non è essenziale per la propria vita e molti esprimono giudizi molto severi sulla struttura ecclesiale e sul clero, mentre manifestano apprezzamento per papa Francesco, ma anche per altre figure carismatiche del mondo cattolico ed in particolare per quelle che incarnano nella propria vita i principi del Vangelo.
Se dunque siamo davanti ad una nuova generazione tendenzialmente scettica, incredula ed agnostica e poiché il cristianesimo a nostro avviso non può essere legato unicamente alla tradizione, ma ad una scelta personale maturata attraverso un incontro capace di mostrare l’essenza, l’originalità, la bellezza, la bontà dello stile di vita venuto a proporre da Gesù di Nazareth, probabilmente dobbiamo interrogarci sull’efficacia della comunicazione della fede che come popolo di Dio riusciamo a proporre ai giovani.
Nella Chiesa presbiteri e laici hanno bisogno di trasmettere la fede con sistemi pedagogici che non possono essere unidirezionali, come ad esempio quelli delle omelie, ma hanno necessità di fondarsi sulla ricerca ragionata, come nelle scuole di teologia per laici, e su un dialogo triadico che dia spazio contemporaneamente all’esperto in teologia, opportunamente formato, ai testi sacri ed alle riflessioni personali di chi vi si accosta.
Così si supera l’analfabetismo teologico e la lettura superficiale della Bibbia ed il centro della comunicazione della fede diventa la parola di Dio e chi ne è in ricerca.
C’è poi il discorso di una profonda riflessione su riti che in altre epoche hanno avuto senso e finalità ecclesiali, mentre oggi forse vengono percepiti dai giovani aridi nel linguaggio e nella capacità di esprimere autenticamente la fede.
La famiglia ha sempre delegato presbiteri, suore, diaconi ed insegnanti di religione nel processo di educazione alla fede; sarebbe opportuno, invece, che si attivasse direttamente non solo ad insegnarla, ma a narrarla con l’esempio della propria esperienza di vita, perché questa ha una capacità di coinvolgimento eccezionale.
Per questo ovviamente occorre grande identità personale e comunitaria, coerenza tra affermazioni di principi cristiani e stili di vita e soprattutto capacità di attenzione educativa nei confronti dei figli.
Da tali presupposti occorre partire per avere prospettive di dialogo aperto con i giovani che da noi adulti hanno bisogno della testimonianza di una fede non di atei devoti, ma di cristiani con un’esperienza di vita credibile, autentica ed in linea con la promessa del messaggio di quel Gesù di Nazareth che per annunciarlo è venuto al mondo, è morto ed è risorto.
A noi adulti, che spesso per egoismo individuale o di gruppo li priviamo di un futuro sereno, i giovani non chiedono l’ipocrisia di una fede opportunistica, strumentale, consuetudinaria o moralistica legata a tradizioni per loro poco comprensibili, ma una narrazione sincera, credibile, appassionata ed autentica del rapporto con un Dio capace di dare loro senso all’esistenza e quella speranza cristiana della quale siamo sicuri.
Ovviamente i percorsi di confronto e di incontro con i giovani vanno cercati e costruiti con intelligenza, ma non possono che partire dal valore fondamentale dell’annuncio cristiano che è l’amore verso Dio e nei confronti dei fratelli che evidentemente sono tutte le persone presenti sulla Terra.
di Umberto Berardo