Carmelina e gli altri
La carica dei cowboy che portano il West tra Puglia e Molise
da La Repubblica del 13 maggio 2016
17 maggio 2016
La processione bianca parte tra qualche giorno, il caciocavallo è già nelle bisacce, il vino Tintilia nei barilotti, la muscisca nel tascapane ed è come la carne secca degli indiani d’America, soltanto che loro non hanno il condimento di origano e peperoncino, poveracci, che vita. Sul Tavoliere sono pronte al lungo viaggio Fiordispina e Primavera, Franceschina e Principessa e le altre cinquecento. «Ogni vacca darà il suo nome alla figlia, è così da centinaia d’anni» spiega la mandriana che in Alto Molise conoscono tutti, Carmelina Colantuono è il suo nome. Lei, più venti uomini, tutti i suoi parenti maschi, per rinnovare il rito millenario della transumanza. Cinque giorni e cinque notti dalla Puglia al Molise a piedi, 180 km su e giù per i monti, bestie e cristiani insieme, per cuscino una pietra, per tetto le stelle. Non lo fa più nessuno.
«Dice mio padre Nicola: e caricate ‘ste vacche sul camion. Ma la transumanza l’ha sempre vissuta e ancora la chiede a 80 anni, e prima di lui mio nonno Felice, e prima ancora il bisnonno Nicola e poi i miei fratelli, i cugini, e la mia nipotina Nicole ha 9 anni e nel tema ha appena scritto che da grande diventerà una cowgirl». Intere generazioni passate di qui, su questa specie di autostrada verde che scappa dallo sguardo e scende da Torella del Sannio. È il tratturo. Ne sono rimasti quattro, Regi Tratturi che legano un lungo pezzo d’Italia per 275 km. «Alla partenza per la Puglia, a novembre, e al ritorno a maggio si fa festa, 600 bambini salutano in piazza ».
Un tratturo è largo 111 metri e 60 centimetri, «60 passi napoletani, secondo l’antica unità di misura», spiega Carmelina, mentre sua madre Vittoria porta scamorza e vino. «Da noi le donne sono sempre state a casa con i vecchi e i bambini, mentre gli uomini si spostavano due volte l’anno con le bestie e lì rimanevano. Ma io non ho voluto. Ascoltavo i loro racconti, la paura del fulmine, le notti accanto al fuoco sotto pioggia e neve, le corse dietro alle vacche in fuga e ho scelto anch’io questa vita. Oggi ho 47 anni e faccio le due transumanze ogni anno. Mi occupo della logistica, perché spostare 500 vacche per 180 km vuol dire chiedere permessi ai Comuni, contattare le ferrovie e la polizia, pensare ai cibi, all’acqua». Una mantella addosso, poi in sella al cavallo anche se la maggioranza dei mandriani cammina al passo degli animali «che sono più veloci degli uomini, molto di più», e ogni borgo è un’attesa. «Ci sono i luoghi, i “riposi” per far bere le bestie e per mangiare, invece di dormire non se ne parla. Ci si ferma nelle ore più calde per non far soffrire le vacche e all’alba si è già in cammino. La mucca più anziana ha il campanaccio grosso e le altre la seguono. Se non fosse per gli attraversamenti stradali, potrebbero fare tutto da sole».
Sono belli e misteriosi i nomi di questo viaggio: Santa Maria in Lamis sul Gargano, Ponte Civitate sul Fortore, Santa Croce di Magliano, Femmina Morta, Ripalimosani, Castropignano, Torella e infine Frosolone da cui si ripartirà al contrario tra sei mesi. In quelli più caldi il Molise, in quelli più freddi la Puglia. Per avere sempre latte, e formaggio. «Era anche la via degli eserciti, dei commerci e dei pellegrini», racconta Nicola Di Niro, direttore dell’agenzia di sviluppo rurale Moligal. «Puntiamo all’Unesco, vogliamo creare un turismo culturale sui tratturi che vogliamo difendere e rivitalizzare. E con noi Francesi, Spagnoli, Greci e Svedesi anche in Lapponia fanno la transumanza con le renne, ci siamo stati, tutto il mondo è paese».
«Adesso venite che vi porto da Filippo», dice Carmelina. La strada è in cresta a un panorama che manda indietro le parole. Questo è lo sconosciuto Molise che a scuola, alla medie, era solo “e Molise” dopo Abruzzo. «E in Puglia ci chiamano ancora gli Abruzzesi, perché il Molise non esiste proprio ». C’è un uomo seduto su una panchetta di legno, tutto vestito di velluto come quando accompagnava le vacche, l’orologio a cipolla incatenato al gilet, nel pugno un bastone nodoso. «Ma solo perché la mula mi ha fatto cadere quarant’anni fa, mai stato malato a parte la gamba rotta». Filippo Colaciello lo dice in molisano stretto, Carmelina traduce. Quanti anni sono, Filippo? «Ne ho fatti 90 ringraziando il Signore, per 50 in transumanza e ci andrei ancora. Niente acqua, niente luce ma stavamo sempre contenti ». Da qualche sua lontananza emerge un soldato: «Il tedesco aveva rubato le vacche. Poi è arrivato l’altro, con la faccia dipinta di nero e io ho chiesto ma perché l’ha dipinta?». Questo, invece, era americano. Filippo non solo non aveva mai visto un uomo di colore, neppure sapeva che esistessero. Ora vuole andare dalle vacche, scendiamo insieme, lui traballa a passo svelto. «Una mamma e una figlia a Santa Croce ci fecero la pastasciutta, la mamma entrò in casa, noi la pasta la mangiammo tutta e la figlia ci chiese dove l’avevamo messa. E quando un mandriano beveva, gli altri dovevano smettere di mangiare per non finirgli tutto mentre lui stava col bicchiere in mano». Oppure, quell’altra volta della vacca rubata dal pastore: «Lui diceva che era sua, io portai lì il maresciallo e dissi al ladro: dài, chiama la vacca. E quello: Giovannina, Giovanninaaa e la vacca niente, immobile. Così attacco io: Tommasina, Tommasinaaa, e la vacca subito fa muuuuh! Poi si andava tutti insieme dal barbiere solo per stare seduti sulla poltrona e riposare».
Gli uomini e la donna della transumanza sono i nostri remoti cowboy senza fucile e senza epopea, senza film e senza futuro, ma adesso che il viaggio comincia non c’è altro che conti. Torneranno presto vicino al fuoco, anche se non mangeranno più in un unico piatto, come quando Filippo era ragazzo. Non portano più le scarpe chiodate «per farle durare quattro, cinque anni», ma i calzettoni di lana al ginocchio ancora sì. Niente più mantella di pelle di capra e guardamacchia sulle braghe, però il resto è uguale. Non cambiano il freddo sulla pelle e la sete africana sulla salita di Scorciacrapa, e neppure la paura del fulmine che ne ha ammazzati tanti. La processione bianca attraversa lo spazio e il prato, ma di più il tempo. Filippo una di queste notti sogna di partire.
da La Repubblica del 13 maggio 2016