Parlare i dialetti fa bene al cervello come il bilinguismo
Secondo alcuni studi, la nostra mente non li percepisce dissimilmente da una lingua. Anzi, all’atto pratico, padroneggiarli la allenerebbe in egual misura. Con tutti i vantaggi che ne conseguono
di Rosita RiJtano
04 luglio 2016
A VOLTE considerati tali in maniera impropria, fin troppo spesso sottovalutati, bollati come espressione del vulgo e, quindi, di poca importanza: sono i dialetti. Negli Stati Uniti, milioni di bambini crescono parlando allo stesso tempo l’inglese afro-americano vernacolare a casa e l’inglese statunitense a scuola. Ma non sono i soli. Esistono situazioni similari nel mondo arabo. Così come in Europa: per esempio, in alcuni porzioni della Svizzera, dove non è difficile imbattersi in qualcuno che ciarla in tedesco; o in Belgio e in Spagna. E se noi italiani ormai ce ne serviamo quasi solamente per rigurgiti identitari oppure li evitiamo, fino ad averli progressivamente messi da parte secondo un’indagine Istat del 2006, ora tocca alla scienza riabilitarne l’utilizzo. Perché, secondo alcuni studi, il nostro cervello non li percepisce dissimilmente da una lingua. Anzi, a dispetto di chi vuole attribuire a quest’ultima una maggiore nobiltà, all’atto pratico padroneggiare più di un dialetto allenerebbe la mente in egual misura.
Gli effetti benefici del bilinguismo sono oggi più che noti, per farsene un’idea basta scorrere i titoli delle notizie in merito: chi parla due lingue ha il cervello più forte, tanto da venir “protetto” in caso di ictus; il bilinguismo? Un vantaggio. Si impara meglio fin da piccoli; bilinguismo: una palestra per il cervello già a 11 mesi. E via discorrendo. Man mano che la ricerca prosegue si scopre qualche nuovo giovamento. Piccolo eppure importante. A mancare però, fino ad ora, è stata una conoscenza relativa ai frutti del bidialettismo, inteso come l’uso sistematico di due differenti dialetti della stessa lingua. Così Napoleon Katsos, ricercatore dell’Università di Cambridge, e i suoi colleghi dell’Università di Cipro e della Cyprus University of Technology, hanno pensato di colmare questa lacuna. Con una ricerca diretta a studiare le performance cognitive dei più piccoli cresciuti parlando sia il greco cipriota sia il greco moderno: due varianti dell’idioma ellenico che sono strettamente legate, ma differiscono tra loro a ogni livello dell’analisi linguistica (vocabolario, pronuncia e grammatica). Un’analisi che ha coinvolto 64 bambini bi-dialettali, 47 multilingui e 25 monolingue, e in cui i tre gruppi sono stati messi a confronto tenendo conto delle condizioni socio-economiche, del livello d’intelligenza generale e delle competenze linguistiche. “Un po’ a sorpresa”, scrive Katsos sulla rivista statunitense Quartz, “i bimbi multilingui e quelli bi-dialettali hanno dimostrato un vantaggio su quelli monolingue in un punteggio composito di processi cognitivi, basato su test della memoria, attenzione e flessibilità”.
Non è il solo esito che va in questa direzione. Un’altra ricerca recente ha preso in considerazione gli obiettivi educativi raggiunti da quei ragazzi norvegesi a cui insegnano a scrivere in due dialetti; scoprendo che negli esami nazionali, inclusi quelli di aritmetica e lettura, ottengono risultati migliori della media. E ancor prima un report redatto da Maria Garraffa, Madeleine Beveridge e Antonella Sorace, ha evidenziato che pur non essendoci differenze immediate tra i bimbi che utilizzano un mix di sardo e italiano e quelli che dialogano solo in italiano per quel che riguarda abilità cognitive e linguistiche, quando nel tempo emergono gradualmente delle diversità sono a favore dei primi. “Questo suggerisce”, conclude Katsos, “che i vantaggi in precedenza associati al bilinguismo possono essere condivisi dai bambini che parlano uno o più dialetti. Perché tali benefici insorgono con qualsiasi combinazione di lingue che si differenziano abbastanza da impegnare il cervello. Possono essere due dialetti della stessa lingua, due lingue simili come spagnolo e italiano, o totalmente differenti per esempio inglese e mandarino. Ma passare sistematicamente da una all’altra, sembra fornire alla mente quella stimolazione extra che porta a performance cognitive più alte. La pluralità è una marcia in più e a tal proposito i dialetti sono sottostimati”.
Nel caso italiano c’è un altro aspetto da considerare, ci spiega Roberta D’Alessandro, professore ordinario d’italianistica presso il Leiden University Centre for Linguistics, in Olanda, e vincitrice di una borsa di studio europea (che l’ha vista protagonista di una querelle con il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini): “Quelli che in Italia vengono definiti dialetti in realtà, da un punto di vista linguistico, sono lingue a tutti gli effetti”, sostiene la studiosa. “Napoletano, siciliano, abruzzese, milanese, piemontese e veneto si sono sviluppati autonomamente dal latino, senza passare dall’italiano. Molti genitori, soprattutto al sud, hanno il terrore di far ascoltare il dialetto ai propri figli. È un errore gravissimo, perché mettono delle barriere al loro sviluppo cognitivo, che invece potrebbe essere molto più avanzato. Se un bambino parla italiano a scuola e napoletano a casa, cresce bilingue. Con tutti i benefici che ciò comporta”. E se nel nostro paese fatichiamo a crederlo, c’è da dire che il cervello è sempre più avanti: implicitamente lo sa già.
di Rosita RiJtano (da La Repubblica del 6.06.16)