La sanità è già privatizzata
Liste di attesa, intramoenia, corruzione: invece di abbattere le liste di attesa operando sulle cause si preferisce indirizzare sempre più persone verso le prestazioni private
di Paolo Di Lella (da ilbenecomune.it)
06 ottobre 2016
Quando si dice che il Servizio sanitario nazionale non è in grado di soddisfare i bisogni della popolazione ci si riferisce in primo luogo alle liste di attesa troppo lunghe. Non è una questione di impazienza, bensì di vita o di morte.
Per un malato oncologico in lista per l’intervento, il tempo è tutto; così come è decisivo il tempo nella diagnosi.
In questa drammatica partita agisce, non certo da spettatore, l’interesse privato: non solo all’interno delle strutture private convenzionate, ma finanche dentro le mura del pubblico. Intramoenia (dal latino, letteralmente: dentro le mura) è una formula con la quale il Ministero della salute regolamenta le prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i quali utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento, da parte del paziente, di una tariffa. Il medico è tenuto al rilascio di regolare fattura e la spesa, come tutte le spese sanitarie, è detraibile dalle imposte. Le prestazioni sono generalmente le medesime che il medico deve erogare, sulla base del suo contratto di lavoro con il Servizio Sanitario Nazionale, attraverso la normale operatività come medico ospedaliero.
In poche parole, lo Stato, disattendendo a ciò che è garantito dalla Costituzione (Art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”) e dichiarando, di fatto, la propria incapacità di dare risposta ai bisogni fondamentali dei cittadini, promuove, all’interno delle strutture pubbliche, l’attività privata dei medici.
Ecco perché il personale medico, anche nel pubblico, non si schiera compattamente a difesa della sanità pubblica e universale.
In termini astratti – cioè se il servizio pubblico funzionasse a regime, esaudendo completamente la richiesta – la prassi dell’intramoenia non sarebbe neanche di per sé cattiva. Piuttosto, un elemento di libertà per il cittadino che avrebbe così la possibilità di scegliere il medico a cui rivolgersi per una prestazione; darebbe, al contempo, ai medici la possibilità di integrare il proprio reddito svolgendo attività al di fuori del proprio orario di lavoro. Inoltre, ciò comporterebbe anche un maggiore rientro da parte dello Stato rispetto alle entrate ottenute – nel migliore dei casi – dalla tassazione della libera professione. Così concepita, si tratterebbe di un servizio complementare, accessorio, che garantirebbe libertà di scelta al cittadino, libertà di impresa ai medici e darebbe luogo anche ad un maggior controllo pubblico sulle prestazioni straordinarie del personale sanitario.
Il problema è che nell’intenzione del Governo il tema della libertà non vi entra neanche di striscio. È la solita retorica buona per abbindolare i sempliciotti.
Lo scopo di chi l’aveva introdotta, l’allora Ministro della salute Rosi Bindi era, banalmente, quello di porre un argine al fenomeno della doppia attività che sempre più medici iniziavano a intraprendere: la mattina negli ospedali pubblici, la sera negli studi privati.
Tempi d’oro, evidentemente, rispetto ai giorni d’oggi…
Oggi intramoenia è la manifestazione del pensiero debole degli ultimi Governi in materia di sanità pubblica: invece di abbattere le liste di attesa operando sulle cause – quindi rimodulando i budget destinati alle diverse aree a seconda della domanda – si preferisce indirizzare sempre più persone verso le prestazioni private.
Sarà per questo, come emerge dal rapporto Censis-Rbm Salute presentato lo scorso giugno a Roma al Welfare Day sulla sanità integrativa, che 11 milioni di italiani rinunciano alle cure.
In pratica, non si delinea la situazione per cui il cittadino è libero di scegliere tra ciò che è garantito dal sistema sanitario e una prestazione accessoria ma, drammaticamente, lo si mette di fronte alla scelta: i soldi o la vita.
di Paolo Di Lella (da ilbenecomune.it)