Gli intellettuali
Come contribuire a mantenere l’esercizio della libertà criti
di Umberto Berardo
16 gennaio 2017
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Senza fare una disamina troppo articolata, è chiaro che sul piano storico è difficile dare una definizione univoca della figura di intellettuale, termine introdotto, secondo alcuni, nel 1898 con il “Manifesto degli intellettuali” da parte dei dreyfusardi o, secondo altri, già nel XVIII secolo in Russia attraverso la parola intellighenzia.
Nel libro V della Repubblica di Platone si delinea per la prima volta la teoria dell’intellettuale-filosofo che si sottrae all’interesse individuale per occuparsi di quello collettivo.
Tra la fine del Medioevo e l’età moderna con gli umanisti, i letterati, i teologi e gli scienziati si pongono le basi per la nascita degli intellettuali propriamente detti.
Non è errato sostenere che in linea di massima fino all’Illuminismo essi siano stati una categoria elitaria, legata alle classi dominanti e funzionale alla gestione del potere economico e politico, anche se figure come Socrate, Giordano Bruno o Martin Lutero lasciano già pensare nel mondo culturale a soggetti che pongono la libertà a fondamento della ricerca e dell’organizzazione scientifica, sociale e politica.
Dall’oratore al retore, al filosofo, al letterato, allo scrittore abbiamo avuto sicuramente l’intellettuale puro, quello tradizionale legato alle classi sociali dominanti, quello opportunista e perciò tendenzialmente asettico e quello rivoluzionario ed organico alla lotta di classe, secondo la definizione gramsciana, nella logica di un pensiero pluralista e dell’inscindibilità tra impegno culturale e politico che sarà poi in grado di rompere la monoliticità del leninismo.
Il tema della necessaria relazione tra teoria e prassi e dell’impegno politico degli intellettuali viene ripreso dalla corrente esistenzialistica, a partire da Jean Paul Sartre, fino a Max Weber, Karl Mannheim e Raymond Aron, mantenendo ferma l’idea di libertà, di autonomia nell’indagine e di spirito critico.
Nella rivendicazione di tale ruolo di libertà nella ricerca della verità, che non è mai un assoluto immutabile dato per sempre, ma un obiettivo da perseguire secondo un principio già fissato da d’Alembert, si inserisce anche in Italia la riflessione sul ruolo degli intellettuali nella società da parte ad esempio di Elio Vittorini e Pier paolo Pasolini che rivendicano l’autonomia di pensiero e di azione dai pericoli dello stalinismo o da quelli di una società di massa che tende ad un processo di acculturazione che, nonostante la larga diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione, nega ancora alle classi subordinate la partecipazione alla vita pubblica e la liberazione dal pensiero unico.
Si avverte la necessità di non ridurre l’intellettuale a funzionario di partito ed in ogni caso con il XIX secolo la sua figura viene sempre più consegnata ad uno schieramento liberale, democratico e progressista.
Per dirla con Norberto Bobbio occorre conciliare la cultura e la politica, impedendo tuttavia che la seconda fagociti la prima, ma serve, aggiungiamo noi, mettere sempre più in relazione il mondo culturale con l’opinione pubblica allargando sempre più la base della formazione delle idee.
Nel mondo contemporaneo sicuramente è migliorato il processo di scolarizzazione e di diffusione della cultura, ma gli strumenti di tale sviluppo sono purtroppo ancora in mano a poteri che tentano d’impedire o di limitare la formazione di un’opinione pubblica dotata di uno spirito critico rispetto all’organizzazione della struttura e della costruzione del sapere come delle forme della sua comunicazione e diffusione.
In una società in cui la plutocrazia finanziaria e tecnocratica detiene non solo gli strumenti della produzione, ma anche quelli della gestione del denaro e degli strumenti della comunicazione come i mass-media e lo stesso web, è chiaro che gli intellettuali fanno fatica a mantenere libertà di espressione ed autonomia di ricerca; talora e sempre più di frequente essi vengono espropriati, come gruppo responsabile della cultura, dei valori e delle norme etiche e giuridiche, da intellettuali specifici, come li definisce Michel Foucault, ovverosia da tecnici.
La contrazione della libertà d’informazione, della sovranità popolare e della giustizia sociale è la conseguenza più grave nell’organizzazione politica della collettività nella quale si sta avendo una forte atrofizzazione del sistema democratico.
Sappiamo come sui giornali, in televisione o sulla Rete ci siano tantissimi sgabelli del potere, ma pensare, come fa il M5S con un post di Grillo, di risolvere tali problemi con “una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali” è semplicemente banale ed allo stesso tempo paradossale.
La necessità è piuttosto quella di opporsi alla verticalizzazione del potere culturale soprattutto nell’organizzazione del sistema dell’istruzione e dell’educazione impedendo che nelle maglie dell’apparato scolastico si elimini la libertà d’insegnamento e si lasci la cultura unicamente ad intellettuali conformisti scelti senza più regole di controllo democratico.
Solo se la scuola continuerà a promuovere spirito critico, noi salveremo il controllo della verità d’informazione.
Nella società e probabilmente sempre nella storia avremo intellettuali conformisti ed altri integri nei valori e nella libertà di coscienza.
Ha ragione N. Chomsky a sostenere che il termine “dissidente” oggi viene usato in modo arbitrario o addirittura negativo per indicare la figura di chi si oppone ad una linea ufficiale di pensiero unico che giustifica spesso privilegi, diseguaglianza e perfino disonestà.
Un tempo molti di tali soggetti dissenzienti erano filosofi come Socrate, profeti come Elia, santi come Francesco d’Assisi o eretici come Thomas Muntzer.
In realtà dissidente è chi, guidato ancora da ideali democratici e da valori di libertà, eguaglianza e fraternità, cerca con una seria critica geopolitica di opporsi agli abusi, alla violenza ed all’ingiustizia e di ricostruire una convivenza umana degna di tale nome e perciò fondata su eguali opportunità per tutti nella qualità della vita.
Di fronte all’accumulazione di prodotti culturali banali ed eterodiretti, c’è la necessità, come hanno sostenuto con lucidità sia Karl Mannheim in “Ideologia e utopia” che Max Horkheimer in “Teoria tradizionale e critica”, per ogni persona che si occupa di cultura di contribuire a mantenere l’esercizio della libertà critica affinché ogni elaborazione di una decisione avvenga in una possibilità di scelta che necessariamente deve rimanere sempre aperta.
Ecco noi crediamo che ricercare tali condizioni per l’umanità sia il ruolo che molti intellettuali hanno cercato nella storia, diventando coscienza collettiva, e che sia nostro dovere alimentarlo oggi ed in futuro soprattutto per le nuove generazioni.
di Umberto Berardo