• 25 Ottobre 2016

La comunità e il territorio come scelta

Le cosiddette aree interne sono i seed savers della nostra cultura. La salvaguardia della diversità in un’ottica di possibilità di scelta

di  Sebastiano Pirisi (da che-fare.com)

25 ottobre 2016

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Ho un’idea. Anzi, più che un’idea è un pensiero. Diciamo che è una speranza. Però è più vicina a un’idea. Facciamo che è un qualcosa che maturo da tempo, sta lì nel cervello e gira. Da un po’. Finora sono stati discorsi, pagine lette e digerite, analisi, ricerche e esperienze che sporcano le mani. Ora le metto in fila, cercando di tessere quello che si avvicina a una visione.

Frenare la desertificazione

La comunità può essere qualsiasi cosa. Partiamo subito da questo assunto. Dalla Comunità Europea alla comunità di quartiere, passando per la comunità globale. Per chiarirci le idee possiamo chiedere aiuto al buon Garzanti che riassume così: la comunità è l’insieme delle persone che vivono sullo stesso territorio o che hanno origini, tradizioni, idee, interessi comuni.

In questa definizione è come se fosse uscito già tanto di quello che saranno le prossime righe.  Il legame col territorio è fondamentale per riuscire a inquadrare di che tipo di comunità stiamo parlando e del loro ruolo nel futuro di un paese come l’Italia. Purtroppo lo spopolamento continua a falciare quelle che sono state definite aree interne o marginali, quei centri a prevalenza rurale e non massicciamente urbanizzati.  Questi paesi sono il simbolo di tanta Italia, di tanto Mediterraneo che non è rappresentato dalle grandi metropoli. Queste comunità sono custodi di una grossa fetta di storia scritta e da scrivere, sono i portatori sani di biodiversità culturale.

Così come perdendo biodiversità negli ecosistemi si ha un impoverimento e un indebolimento dell’intero sistema, così avviene anche nei sistemi sociali e culturali. La monocultura crea dipendenza, assenza di scelta e altissima esposizione a carestie. Tradotto dall’agricoltura al sociale vuol dire che quei piccoli paesi che stanno neanche troppo lentamente morendo, quelle piccole frazioni che costellano stivale e isole possono e devono essere la nostra incredibile fonte di diversità. Quelle tradizioni che noi releghiamo spesso alla mensola più alta dello scaffale, quelle stradine e quelle solite facce da cartolina hanno la possibilità di essere l’agente innovatore che cerchiamo per sperimentare sistemi di gestione nuovi, nuova socialità, nuova democrazia.

Salvaguardare la vita di questi piccoli nodi è salvare le differenze che arricchiscono la nostra cultura, che continuerà ad evolversi tramite lo scambio e l’ibridazione di questi semi e non attraverso la cancellazione e il mantenimento esclusivo dei semi più forti e più adatti al mercato. L’evoluzione dovrà passare dalla trasmissione, dall’integrazione e dal confronto tra le diversità.

Le cosiddette aree interne sono i seed savers della nostra cultura. La salvaguardia della diversità in un’ottica di possibilità di scelta. I nostri semi non dobbiamo solo comprarli, ma conservarli e scambiarli perché ritrovarsi senza semi ed essere costretti a comprarli sarebbe tragico e ci renderebbe totalmente dipendenti, quindi impossibilitati a scegliere.

Questo vale per l’agricoltura come per la cultura. L’omologazione è la porta verso il deserto. Io non voglio che si parli tutti allo stesso modo, non voglio mangiare ovunque lo stesso cibo. Per me è splendido il fatto che a qualche chilometro da Nùoro, dove sono nato, si parli con intercalare differenti e che si abbiano abitudini anche minimamente differenti. È la bellezza di non essere cresciuto dentro un McDonald. Se visito un piccolo paesino della Campania, mi aspetto che si parli una lingua differente dalla mia, nella stessa misura in cui a Oliena e Orgosolo (paesi vicini a Nùoro) mi aspetto che parlino differente da me. Me lo aspetto e voglio che sia così, perché è meraviglioso.

Le comunità ancora esistono, per fortuna. Sono la linfa vitale di ogni territorio, sono il sistema circolatorio della società. Sono le persone, insieme, che cambiano e danno forma a ciò che hanno attorno. E viceversa. Perché il rapporto tra comunità e territorio è un nodo strettissimo. Le stesse persone che sono cresciute in una continua pianura assolata, tra olivi e grano, sarebbero differenti se crescessero in una pianura umida e coltivata a riso. Il territorio ci plasma come noi plasmiamo il territorio in base alle esigenze. Ma qui sta la ricchezza e la necessità di valorizzare queste differenze, le esigenze cambiano, le risposte sono diverse.

Metropoli, massa, delega e consumo

Nel 2008, per la prima volta nella storia, il numero di persone che abita in città ha superato il numero di persone che abita in contesti rurali. Può sembrare un dato come un altro, ma è, a mio parere, il simbolo di un accentramento dannoso. Il contesto urbano è energivoro, sia dal punto di vista delle risorse ambientali che umane. Una città non produce per soddisfare il suo fabbisogno energetico, consuma ciò che produce l’intorno agricolo che, ovviamente produrrà in quantità eccessiva a discapito di una salutare qualità. L’urbanizzazione eccessiva, inoltre, tende a creare una frenetica massa informe piuttosto che un insieme di cittadini partecipi. La metropoli si nutre di delega e rappresentanza, di burocrazia e iper-specializzazione, non consentendo una effettiva partecipazione attiva alla vita politica a tutti i livelli.

Come scriveva Murray Bookchin “un popolo la cui sola funzione politica è quella di eleggere dei delegati non è  affatto un popolo: è una massa, un agglomerato di monadi.” Per questo vanno create le condizioni per un reale coinvolgimento, per un ritorno di interesse generale, per una sana vita politica e civica.

Quindi come si può fare? Cambiando la prospettiva. Non credo nel cambio repentino, quanto piuttosto nella lenta evoluzione che contempla una naturale accelerazione nel momento in cui si imbocca la strada più giusta. Se il neoliberismo ha grossi limiti è tempo di cambiare sistema economico, se il sistema accentrato delle metropoli non è sostenibile è giusto tornare a popolare i centri più piccoli. Per fare questo è necessario trovare l’alternativa, sperimentando. Gli esempi di gestioni alternative, esempi di democrazia diffusa piuttosto che piramidale, esempi di gestione comunitaria non mancano. Possiamo capirli studiandoli e diffondendoli come buone pratiche da cui estrarre soluzioni adatte alle esigenze.

Le transition town, ad esempio, sono il frutto di un fenomeno che ha aperto questa strada in Inghilterra, grazie a condizioni favorevoli. In Italia sono diffusi, soprattutto al centro-nord, gli ecovillaggi. Sono modi di sperimentare alternative all’urbanizzazione e alla gestione così come la troviamo già scritta.

Scegliere di vivere in una realtà più piccola o anche rimanere o tornare a casa può essere un atto di protesta e di proposta. Differenziare i territori di intervento, le modalità, i tempi, senza un direttivo o una struttura centrale e centralizzante. Interventi virtuosi e a lungo termine che seminino la cultura del cambiamento e dell’ibridazione. Tante iniziative autonome guidate dagli stessi principi di integrazione, sviluppo, collaborazione, innovazione e cultura che agiscono nei contesti locali pretendendo autonomia e spazi di sperimentazione. Atti di riappropriamento del proprio ruolo politico strettamente connessi con il luogo in cui queste azioni avvengono. Una protesta e proposta che interpella anche lo spazio, il territorio e le infrastrutture che fanno da strade ai percorsi fisici.

Per questo iI recupero degli spazi abbandonati o sottoutilizzati ha un legame strettissimo con il recupero della comunità. Gli esempi sono innumerevoli, nelle grandi città come in piccoli centri, di capannoni abbandonati, di vecchie masserie o decadenti piccoli palazzotti del centro storico che adesso sono cuore pulsante dell’attività cittadina. Nascono coworking, maker spaces, luoghi per la produzione artistica, luoghi di incontro, necessari per portare avanti un discorso di avvicinamento alla presa di responsabilità necessaria per non delegare.

L’esperimento continuo

Ma cosa manca ai piccoli centri per diventare una scelta? Come si può aumentarne l’attrattiva per fare in modo che continuino a vivere? In queste realtà, oltre l’offerta culturale (fondamentale), manca il lavoro.

Nodo cruciale di tutto questo discorso è proprio questo. Questi piccoli centri, ad ora, non creano economia, rendendo impossibile viverci e costruirci una vita. Però, la risposta a questo problema non può e non deve essere l’abbandono, l’emigrazione fa parte della storia dei popoli ed è parte anche della nostra ricchezza, ma è giusto che sia una scelta e non un obbligo. I territori più interni non devono dissanguarsi e andare a gonfiare sacche urbane già difficilmente gestibili. Per cui è necessario trovare le alternative e le soluzioni.  Come rendere competitivo un territorio scarsamente abitato, magari anche difficilmente raggiungibile?

Una risposta può essere nella ricerca calata lì dove c’è la necessità, fatta sul territorio per il territorio. Cercare, trovare e sperimentare modi di vivere la comunità con i metodi più adatti a quella specifica comunità, sottolineandone le peculiarità e i tratti in comune con le comunità vicine o lontanissime.

Ricostruire e rafforzare le filiere locali, progettare i flussi di materia e di persone chiudendo il cerchio e avvicinando la fonte di approvigionamento e il consumatore creando posti di lavoro nella trasformazione, nella distribuzione e nella diffusione educando al consumo. Avvicinare innovazione e tradizione attraverso la tecnologia e il racconto storico, ibridando mondi che possono sembrare lontanissimi ma che invece possono diventare, insieme, una delle risposte a spopolamento e disoccupazione.

Molti piccoli comuni sono campioni di raccolta differenziata, ma dove si trasforma e dove va a finire questa raccolta virtuosa? In Italia lo smaltimento in discarica è ancora la destinazione prevalente e il trattamento dei rifiuti organici (compostaggio o digestione anaerobica) avviene prevalentemente al nord. Questo è un piccolo esempio di un campo in cui si potrebbe lavorare per progettare e provare un sistema differente, diffuso e gestito in loco.

Ogni territorio dovrebbe avere un proprio centro di ricerca permanente, votato allo sviluppo di soluzioni locali, alla connessione delle competenze già presenti con il richiamo e la formazione di competenze e professionalità ancora mancanti.

L’obiettivo dev’essere rendere il proprio paese, la propria città o cittadina, la propria frazione unica puntando, per essere davvero competitivi e attrattivi, sulla consapevolezza della propria forza e dei propri limiti, mirando a diventare autonomi e padroni delle proprie scelte.

Up Patriots to Arms!

Ho visto coi miei occhi posti come il Rural Hub. Chiunque ne viene a contatto ne rimane scottato, perché è un fuoco che arde davvero. Conosco il Sardex, celebrato in tutto il mondo e nato nella Sardegna della crisi perenne e dello spopolamento inarrestabile. Quest’estate ho partecipato e conosciuto esperienze incredibili come La Scuola Open Source, che vuole riscrivere dalle fondamenta l’educazione in chiave aperta e sperimentale, oppure ReCollocal, che nel Cilento vuole raccontare le comunità lontane dai riflettori, infine il Festival della Resilienza che ha raccolto decine di professionisti da tutta Italia per metterli a confronto con il territorio del Marghine e della Planargia (zone centro-occidentali della Sardegna).

Sono realtà nate piccole e cresciute, alcune già diventate giganti e esempio per tutti. Centri di aggregazione e occasioni di sviluppo di innovazione territoriale, realtà nate per dare soluzioni per il proprio territorio e seminare innovazione.

Immagino che ogni città e paese ne covi una.

Per farle maturare e arrivare a tutta la comunità servono risorse. Tempo, denaro e volontà. Tutte queste tre sono necessarie per fare la scelta di investire su se stessi e sul proprio sviluppo, non partendo da chissà quali soluzioni calate dall’alto o strappate da qualche esperienza lontana. Immagino delle realtà dove i passi da fare per sviluppare un percorso adatto alla comunità siano decisi e pensati dalla comunità stessa. La potenza del crowdsourcing e dell’iterazione continua. Ognuno con le proprie competenze, partecipare alla costruzione e alla gestione del futuro della comunità.

Superare l’abitudine alla delega e prendersi il posto da protagonisti della propria vita nella comunità, partecipando, sbagliando, imparando e portando avanti un obiettivo: crescere insieme agli altri, trovare le soluzioni giuste per tutti mediando tra le varie differenti esigenze. Il fantastico mondo della politica. Quella vera, della gestione della cosa pubblica fatta da chi ne è corpo e anima. Quella resa accessibile da amministratori non arroccati e chiusi ma aperti alla contaminazione e alla sperimentazione. Quella di chiunque voglia prendersene la responsabilità, di tutti quelli che vogliono investire le proprie competenze nel costruire possibilità e che vogliono crescere e passare da piccole lucciole separate a un sistema condiviso, distribuito e diffusamente illuminante.

Sempre Bookchin parlava di governo delle municipalità e di una gestione decentrata fatta di “comunità relativamente auto-sufficienti in cui artigianato, agricoltura e industria siano funzionali a reti comunitarie confederate” in cui la spinta decentralizzante non è semplicemente geografica, ma è carica di valori culturali e spirituali di rafforzamento del singolo e della comunità. Innovare nelle zone più fragili, quelle a rischio di estinzione, vuol dire portare avanti un possibile futuro a misura d’uomo, alternativo a quello di metropoli senza confini.

di  Sebastiano Pirisi (da che-fare.com)