• 14 Giugno 2018

La tredicina, il fuoco, il pane e il giglio

La tradizione del santo di Padova a Gildone

di Giovanni Antonio Grassi – fb

14 giugno 2018

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La Tredicina, il Pane, i Gigli, l’Infiorata e, verso l’imbrunire, per tredici sere, tanti falò pronti per essere trasformati in fuoco purificatore. La fiamma, di un rosso intenso, squarcia le tenebre tra festoni di lingue di fuoco. Poi, d’improvviso, s’accheta e tutto ciò che resta è una grande brace intorno Alla quale siedono le donne della contrada per recitare il Rosario fin quando è vivo l’ultimo tizzone Noi bambini, con acute grida di gioia, correndo da un capo all’altro del Paese ci divertivamo ad attraversare d’un sol balzo la brace ancora ardente. 

Nella preghiera, con Antonio, vengono nominati tutti i Santi, occasione per esorcizzare dal proprio io ataviche e tenebrose paure. Spesso la sequela delle preghiere viene interrotta da lente cantilene dialettali in cui si mettono in risalto la grande fede del Santo di Padova e i numerosi miracoli da lui compiuti. La tradizione della Tredicina risale all’inizio del secolo scorso e si deve all’iniziativa della famiglia Virgilio. Anch’io, allora, 1940, “monacello”, ricordo la sala gremita di giovani che ci accompagnavano nel canto; noi Piccoli Tredici, raccolti davanti all’altarino improvvisato; la signora Vittoria che guidava le nostre preghiere; due grandi ceri accesi davanti al quadro del Santo. Avevo circa sei anni e ricordo il batticuore durante la cerimonia della vestizione. Le mamme presenti avevano qualche luccicone. Si respirava un’atmosfera quasi mistica. Al Santo eravamo tutti molto affezionati per i suoi occhi grandi e lucidi, per il suo sorriso e per quel Bambino altrettanto sorridente che ci tendeva la manina. E noi avevamo bisogno di quel calore, che ci mancava, quello dei nostri padri, che non conoscevamo, ancora lontani, impegnati su un fronte di guerra senza fine..

Il Pane. Il profumo del Pane: profumo mediterraneo profumo di mensa quotidiana condivisione d’amore profumo di comunione. Melchisedech ne spezzò con Abramo, Gesù ne spezzò con i discepoli e in cinquemila se ne saziarono sulla riva del lago. La tradizione del pane risale al miracolo di Tommasino annegato e risuscitato. La madre offrì ad ogni povero tanto grano quanto il peso di suo figlio. Quando sia entrata nella nostra festa è difficile ipotizzarlo, forse verso gli anni 30 del secolo scorso. Col grano e la farina donata si preparano pani in abbondanza. La mattina della festa, accompagnate dalla banda, le ragazze portano sul capo i canestri pieni di pane ornati di gigli e ne distribuiscono a tutta la popolazione. Tempo fa, molti braccianti attendevano questo giorno, prendevano il Pane che veniva loro offerto, lo baciavano, lo avvolgevano in rustici “vangàli”, lo deponevano nel tascapane e partivano per mietere nelle Puglie. Costituiva questo Pane la speranza di un buon lavoro e alimento essenziale durante il percorso.

Un altro elemento di rilievo, facente parte della tradizione della festa, era rappresentato dal maiale. Ogni anno un proprietario donava al Santo un porcellino. Gli si appendeva al collo un campanello per contraddistinguerlo dagli altri e, “Ndùnéll”, questo era il suo nome, vagava liberamente per il paese senza che a qualcuno venisse in mente di disturbarlo. Passava dall’alba al tramonto davanti a tutte le abitazioni e ognuno generosamente gli offriva del cibo. Nel giorno della ricorrenza, l’animale, ormai grande, veniva consegnato alla commissione come contributo per la festa. Altri invece raccontano che in gennaio, nella ricorrenza di Sant’Antonio Abate, veniva offerto alle Suore che nella casa di Padre Bernardo Di Chjcchjo svolgevano la loro opera educatrice verso i bimbi e le giovanette del paese

La banda per le stradine, i colori delle bancarelle, il tirassegno col fucile a piumini, il fotografo ambulante, e, tra un’Opera lirica e l’altra, dalla vicina cantina, la voce roca e avvinazzata d’ “Ze Mìnghe u mbagliasègge” che recitava le sue ballate. Un Paradiso che si è perduto.

Antonio: Arca dell’Antico Testamento, Doctor Evangelicus, Pane dei poveri, Fuoco dello Spirito Santo. Il suo culto, da noi, sicuramente fu portato dai monaci di Sant’Agostino insediati nell’antico Casale Bulgaro di Sant’Andrea. La Chiesa del loro convento, infatti, inizialmente titolata a Santa Maria della Pietà, successivamente si fregiò anche del nome del “Divo” Antonio. 

“Per la cultura popolare, ha scritto il nostro Franco D’Elia, il Santo di Padova viene inserito nei problemi della collettività e dell’economia agricola, diventando il simbolo dei poveri, degli umili, dei diseredati, ma soprattutto il protettore degli animali domestici e dei raccolti. Diversi sono gli elementi significativi che ne testimoniano le antiche origini, anche se non è possibile fissarne con esattezza la data in cui si colloca. Senza dubbio, si può dire, che il contesto socio-economico è caratterizzato da povertà, carestia, crisi economiche, profonda insicurezza. Basta una grandine, una invasione di parassiti, una morìa di animali, per sconvolgere in profondità l’equilibrio della comunità contadina. Davanti a questa crisi esistenziale fatta di insicurezza, si allevia la condizione sociale di sofferenza ricorrendo al Santo Protettore. Non è più costumanza ora benedire pubblicamente gli animali a Gildone. Da testimonianze raccolte sembra che intorno agli anni 30-40, nella ricorrenza del 13 giugno, durante la processione venivano benedetti gli animali domestici concentrati nella piazza principale del paese……… Il Santo veniva invocato con preghiere

e canti, anche per la protezione degli animali non presenti (tacchini, galline, conigli, ecc.). L’importanza degli animali domestici per la vita comunitaria viene testimoniata dai comportamenti rilevati in occasione di malattie epidemiche o per l’improvvisa perdita di un capo di bestiame. Tutta la famiglia sembra colpita da profondo dolore. Nei giorni seguenti, i più stretti parenti ed amici si recano in casa dello sventurato dolendosi della disgrazia capitatagli. Si partecipa al cordoglio, si porgono doni come si trattasse di una persona cara”.

di Giovanni Antonio Grassi – fb

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