• 28 Giugno 2018

LA SPARTENZA

La disperazione e la voglia partire, se sei povero, è uguale ad ogni latitudine e qualunque sia l’epoca 

di eserbiunsassoilnome – fb

28 giugno 2018

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Sapete dove sta Duronia? Nulla di grave se non lo sapete, è normale. Come normale è il non sapere di sperduti paesi, dai nomi sconosciuti, tra erba bruciata dal sole e le stoppie, tra i sassi e l’aspra terra, in lande desolate ancorché bellissime, che siano qui in Italia o altrove, magari in un altro continente.

E il non conoscere il paese rende difficile conoscerne e capirne la vita, la cultura, le difficoltà, la disperazione.

Ma vi posso assicurare che la disperazione che provi, qui in Italia o in un altro continente, è uguale se sei figlio di un popolo oppresso o in guerra, se non hai da mangiare, se hai perso la speranza. La disperazione e la voglia partire, se sei povero, è uguale ad ogni latitudine e qualunque sia l’epoca.

Noi, ad esempio, partimmo da Duronia nei primi del novecento per intraprendere il viaggio verso l’America, verso un futuro che ci raccontavano essere migliore. Per noi era la fame ad aver alimentato la disperazione, ucciso la speranza e spinto a lasciare con dolore la terra in cui affondavano le nostre radici, la nostra cultura e i nostri affetti.

Ci era arrivata la voce che dopo l’abolizione della schiavitù, in America, se avevi fegato e forza, potevi andare in miniera a prendere il posto dei negri non più obbligati a fare certi durissimi lavori: guadagnavi qualche soldo, che a noi che non avevamo nulla sembrava comunque un’enormità. Li avremmo mandati alla famiglia rimasta su queste colline molisane, lontane da tutto, a patire la fame.

Partimmo da Duronia verso il mare, unendoci ad altri emigranti dalle terre vicine, chi si imbarcò a Napoli chi a Palermo. E se già quello in terra sembrava un viaggio duro, capimmo ben presto che quello in nave, sull’oceano, sarebbe stato ancor peggio.

Ce lo fecero pagare profumatamente quel viaggio, sia in denaro che in sofferenza. Rimanemmo più di venti giorni, stipati come animali, nel ventre della nave senza avere il tempo per la meraviglia, la noia o la nostalgia. I soprusi dell’equipaggio, il mal di mare, la paura della dissenteria, del naufragio e di essere sbarcati in un porto diverso da quello previsto, distraevano la nostra attenzione da quello che noi, gente del sud salita su una nave, chiamavamo la spartenza: la dolorosa separazione dalla terra e dalle persone che amavamo. E non ci aiutava neppure il pensiero proiettato verso un futuro migliore, tanto erano le incertezze che in quel limbo galleggiante in mezzo all’oceano, sapevamo di dover incontrare una volta giunti sull’altro continente.

Il toccar terra e superare i controlli di frontiera, non ci interruppe il viaggio. Continuammo a stento per strade polverose sotto lo sguardo feroce della gente, verso la Virginia Occidentale. Era lì che stava l’enorme miniera di carbone della Fairmont Coal Company. Aveva bisogno di mano d’opera a buon mercato e non troppo pignola sulle condizioni di lavoro, per dar energia all’industria americana, per far grande la Nazione.

E a far grande la Nazione, tramite quella infame miniera di carbone, erano soprattutto italiani: molisani abruzzesi e campani. Poi c’erano polacchi, salvi, greci e irlandesi. Pochissimi gli americani.

Si scendeva nelle viscere della terra ad estrarre con grande fatica il minerale e man mano che scendevi il caldo aumentava tanto da toccare temperature che sfioravano i 50 gradi. L’aria mancava, la stanchezza ti piegava in due. Ci accompagnavano nella discesa e nell’esplorazione dei cunicoli i canarini, a cui gli americani affidavano la nostra sicurezza contro le letali sacche di grisù. Li liberavamo nei cunicoli e se non morivano, potevamo andare avanti perchè non saremmo morti neppure noi.

Ma i canarini non ci aiutarono la mattina del 6 dicembre 1907. Alle ore 10.30 la deflagrazione nelle viscere della terra delle gallerie 6 e 8, si percepì fino a 30 km di distanza dal punto dell’esplosione.

La violenza dello scoppio, annullò gallerie, cunicoli, case, strade, 400 vite e relative speranze. 180 gli italiani.

Le commissioni d’inchiesta non individuarono alcun responsabile del disastro e di conseguenza non individuarono alcun obbligato a versare alle famiglie delle vittime il benchè minimo indennizzo.

Fu un’altra spartenza per noi quel 6 gennaio 1907, non più dalla nostra terra per via del mare, ma dalla vita in nome della grandezza di una Nazione che non era la nostra.

Di noi restò qualche lapide ammaccata e un flebile ricordo, di tanti altri, partiti dall’Italia o da un altro continente e che non fecero più ritorno, si preferisce dimenticare.

di eserbiunsassoilnome – fb

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