A chi vive la montagna, la cura della montagna
Dopo il maltempo che da Nord a Sud ha flagellato il territorio, abbiamo parlato con Paolo Piacentini presidente nazionale di FederTrek
di Maria Fioretti (da orticaluab.it)
06 novembre 2018
Paolo Piacentini è una di quelle persone da cui si può imparare molto sulle aree interne. Soprattutto però è un camminatore di montagna, profondo conoscitore dell’Appennino: presidente nazionale di FederTrek, frequenta l’Appennino da escursionista e da sempre il suo impegno è rivolto ai temi legati alla montagna e alle questioni ambientali. E’ stato professore a contratto all’Università La Sapienza di Roma dove ha insegnato Organizzazione del territorio montano, suo è il libro “Appennino atto d’amore”, che racconta la storia di un lungo viaggio appenninico a piedi e avvia una riflessione sui problemi dell’Appennino e su quello che dovrebbe essere. Negli ultimi tre anni si è occupato dei cammini storico culturali per il MiBACT, e ha fatto anche parte della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente.
Con lui abbiamo parlato delle cause e delle conseguenze del dissesto idrogeologico, partendo dai danni irreversibili in Veneto, fino al dramma della Sicilia, toccando anche l’Irpinia. Da Nord a Sud è necessaria una presa di coscienza rispetto alla messa in sicurezza del territorio che non si fa con la propaganda da miliardi di euro, ma studiando un nuovo modello dell’abitare, educando comunità consapevoli e prendendosi cura quotidianamente della montagna. Insomma, una strategia di prevenzione in un Paese che ha sempre investito sulla manutenzione dei territori a valle di una tragedia.
Cosa sta accadendo oggi alle nostre montagne?
«Quello che abbiamo visto a Belluno potrebbe accadere ovunque – ed è già successo – ovviamente in base alle caratteristiche, alla morfologia del territorio, in base a quanto l’uomo ha inciso nell’antropizzazione tenendo o meno conto della fragilità. Passiamo da situazioni scandalose come la casa in cui sono morte nove persone per il maltempo in Sicilia e lì si tratta di una costruzione abusiva in luoghi in cui non dovrebbe esserci alcuna struttura, a situazioni drammatiche come i boschi completamente distrutti in Veneto. Facendo le dovute differenze la montagna subisce fenomeni atmosferici violenti e improvvisi, i cambiamenti climatici ci mettono davanti a conseguenze estreme e il territorio è più fragile di un tempo perché manca la manutenzione ordinaria, non c’è cura. Magari sono stati fatti nei fiumi e nei torrenti interventi che non andavano fatti, le zone si sono sempre più impermeabilizzate, non vengono più ripulite. Il problema non è – come ha dichiarato il Ministro Salvini – il vincolo posto da qualche ambientalista che non voleva far rimuovere un albero da un torrente o non voleva far dragare un terreno, anzi i vincoli sono fondamentali».
Qual è quindi il vero tema?
«La mancanza di un approccio preventivo, quello che porta a fare manutenzione ordinaria e straordinaria sui territori attraverso l’ingegneria naturalistica. La maggior parte delle volte vengono fatti interventi di recupero a valle, quando l’evento si è già verificato e addirittura si riesce a fare peggio del danno. L’inutilità dei soldi spesi è palese, fondi che avrebbero dovuto essere destinati alla forestazione o alla messa in sicurezza, vengono usati per una staccionata».
Può spiegarci meglio?
«Non c’è mai stata una strategia vera e seria di medio-lungo periodo per mettere in sicurezza il territorio. Al di là del dibattito che intercorre tra naturalisti più o meno radicali – tra chi sostiene che la natura si stia riprendendo tutto ignorando che l’uomo ha sempre vissuto a contatto con l’ambiente – non si è tenuto conto che l’abbandono della montagna è una questione seria che rischia di continuare: c’è bisogno dell’uomo, ma di un uomo educato, che sia attento alla montagna, che la sappia gestire, che ne sia custode. Oggi chi è rimasto non ha la stessa consapevolezza del passato e questo vale per tutte le aree interne, domina la cultura urbana rispetto a quella rurale».
Come si tutela la montagna?
«Sarebbe necessario abitarla diversamente, facendo in modo che ci siano dei presidi che possano occuparsi della pulizia dei boschi, degli argini, come facevano i contadini col proprio terreno. Da un lato l’assenza di manutenzione, dall’altro l’impermeabilizzazione con nuove strade, finti sentieri forestali che venivano asfaltati, tagli inutili, speculazioni edilizie anche in montagna, un abusivismo diffuso, hanno portato al punto in cui siamo. La prima opera pubblica su cui dovrebbe puntare il Paese è la manutenzione del territorio, si dice sempre più spesso ma non avviene mai. La messa in sicurezza va fatta con interventi studiati. Se si continuano ad usare toni da campagna elettorale annunciando l’arrivo di 40 miliardi di euro, di cui si parla da anni, senza permettere alla popolazione di capire come saranno spesi, si rischia di creare danni molto seri, peggiori di quelli che vediamo. Andrebbe fatto un cambio culturale radicale, a mettere in piedi questi progetti ci vorrebbe gente che conosce i territori, dovrebbe trattarsi di un lavoro multi settoriale, interdisciplinare che porti a dire quale intervento sia il meno impattante e il più efficace possibile».
Esiste una reale possibilità di monitorare il territorio?
«La situazione è molto difficile, i cambiamenti climatici sono veri, i fenomeni forti più frequenti e – come dice Luca Mercalli – non sono sempre così eccezionali ma sono straordinarie e allucinanti le ripercussioni. Tornare ad occuparsi della montagna e delle aree rurali, non costruire dove non si può e demolire quello che c’è, investire in opere di messa in sicurezza seguendo progetti mirati che sappiano cogliere la complessità dei territori e, fatti i lavori, serve un controllo capillare, perché non si può più giocare sulla pelle delle persone e sulla distruzione del territorio lasciando spazio agli speculatori».
In Irpinia esiste un Progetto Pilota che porterà ad investire sui servizi nelle aree interne, è ancora utile così come è stato pensato all’inizio dato il progressivo abbandono delle montagne?
«Le intenzioni della Strategia Nazionale Aree Interne sono lungimiranti e le azioni sono affidate ad esperti anche molto competenti. Però andrebbe rimodulata in base a nuove esigenze, soffermandosi su questo tipo di interventi di tutela. Si parte da intuizioni interessanti e su alcune aree il lavoro che si sta facendo è da apprezzare, col tempo si è indebolita probabilmente anche in base all’accordo quadro stipulato con le Regioni che non sempre rispondono celermente sui finanziamenti. In questa fase andrebbero riviste delle cose, è chiaro che se un territorio cade a pezzi dal punto di vista della fragilità e della sicurezza, il tema dei servizi resta importante ma non prioritario. Il problema è che difficilmente si riesce a creare una rete reale tra le aree pilota che rischiano di essere delle zone individuabili a macchia di leopardo che non comunicano e invece io credo che i territori isolati non hanno come prima necessità quella di avere un servizio, ma di ritrovare un nuovo modello dell’abitare».
Lei su cosa punterebbe?
«Al primo posto c’è il rapporto con il territorio, un impegno per creare comunità più consapevoli. Il Progetto Pilota rischia di essere un po’ un cane che si morde la coda, perché se si torna in montagna perché c’è una scuola o perché non piace il contesto urbano, si finirà a fare i pendolari con la città, mentre ci sarebbe bisogno di gente che vive in maniera stabile le aree interne, che riapra un forno, che metta in piedi un’attività che sta sul territorio, che non lasci una comunità fatta solo di anziani. Un’attività agricola non significa solo riattivazione di un progetto in montagna, ma sposare l’innovazione, farla convivere con i saperi tradizionali. Ci sono giovani ipertecnologici che scendono in campo per ripristinare l’agricoltura o l’allevamento o il patrimonio boschivo, di cui oggi si discute molto legandolo ai servizi eco sistemici che si muovono a vantaggio di chi fa un’operazione di fruizione del bosco non solo in termini produttivi ma immateriali, che hanno a che fare col benessere psicofisico, con l’escursionismo, col turismo esperienziale. Punterei su un’analisi che possa valutare quanto un rischio ambientale o idrogeologico o sismico incide sui fenomeni dell’abbandono, anche avendo un ritorno di servizi essenziali con la scuola, la sanità, i trasporti».
Ha già un’idea di come potrebbe realizzarsi quest’azione di salvaguardia giorno dopo giorno?
«La cura del territorio fatta ogni giorno è fondamentale. La mia idea – di cui ho parlato con i tecnici dell’Ispra (Istituto Superiore protezione e Ricerca Ambientale, è un ente di ricerca collegato al Ministero dell’Ambiente, elabora i dati sul dissesto idrogeologico, ndr) – consiste nel fare manutenzione per cercare di evitare che ci siano fenomeni franosi devastanti permettendo a chi fa impresa nelle aree rurali di avere in dotazione un software molto semplice da gestire che consenta di valutare le zone a rischio dissesto. Lo Stato defiscalizza l’attività e chi fa impresa diventa il custode del luogo, in Liguria ad esempio ci sono i contadini custodi della terra, così ci sarebbe un controllo, un monitoraggio visivo del territorio. Sarebbe una sorta di Protezione Civile diffusa che presidia la montagna, purtroppo però la prevenzione non interessa. Le comunità vanno motivate a creare col territorio un rapporto forte attraverso un sostegno che non è clientelismo, altrimenti è inutile continuare a spendere soldi per la manutenzione se questa arriva sempre a valle di una tragedia».
Grazie per averci aiutato ad approfondire i temi della montagna…
«Grazie a voi».
L’immagine in copertina è una fotografia scattata da Giovanni Centrella
di Maria Fioretti (da orticaluab.it)