Pellegrino al Santuario di S. Lucia
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
28 dicembre 2018
Chiamati dal priore, salimmo sulla vecchia corriera e tra canti e litanie e vomitate, giungemmo a Sassinoro.
La corriera sostò in piazza e processionalmente, dal lavatoio, iniziammo a salire l’irta salita a piedi per raggiungere il vecchio santuario sulla vetta del monte.
Cercavo di stare alla testa del corteo per scoprire le vedute del paesaggio montano ricco di felci, nel desiderio nascosto di portare anch’io la croce dei pellegrini.
Sudati e stanchi, giungemmo al santuario, mentre l’eremita ci attendeva con la scatoletta forata per ricevere le offerte, evidentemente aveva udito i canti e le litanie dalla vallata.
A tutti i pellegrini offrì le pietre benedette della roccia santa, che furono custodite quali preziose reliquie da porre sugli occhi per eventuali problemi alla vista.
Ricordo la devozione di una donna che in ginocchio, con la candela in mano, si portava affranta fino alla statua della santa per implorare la grazia per la figlia ipovedente, e la ressa dei fedeli per salire sulla scalinata che immetteva nella cavità della roccia.
Il rito suggestivo di attraversare chini la gola della roccia stretta e buia era l’attrattiva maggiore del santuario.
Era la devozione più coinvolgente per il pellegrino perché nel buio e nel silenzio della fredda cavità, obbligato a inchinarsi per attraversarla, quando ne usciva riguadagnando la luce, non poteva che rendere grazie alla santa protettrice del bene sommo della vista.
E, almeno per quel giorno, pentirsi dei peccati e ravvedersi.
(Nella foto: l’antico santuario)
di Vincenzo Colledanchise