Le logiche del regionalismo differenziato
L’attivazione di un’autonomia fortemente differenziata non può che accentuare le disuguaglianze sul piano territoriale in particolare per le regioni più piccole che finiranno per perdere la stessa autonomia
di Umberto Berardo
14 gennaio 2019
Sappiamo tutti come negli ultimi anni siano fioriti i tentativi di riforma della Costituzione italiana.
Con la legge costituzionale n. 3 dell’ottobre 2001 si è cambiato il riparto di competenze legislative tra lo Stato e le regioni e la forma di governo delle stesse con la modifica del Titolo V negli articoli 121, 122 e 123 generando tuttavia più di un conflitto di competenza reciproca tra gli enti locali ed il Parlamento.
Nel dicembre del 2016 il governo Renzi con un referendum tentò, per fortuna senza esito positivo, uno stravolgimento pericoloso della stessa Carta fondamentale.
Il 22 ottobre 2017 si sono celebrati due referendum consultivi in Lombardia e Veneto sulla possibile richiesta di nuove forme di autonomia.
Ora Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sicuramente potranno essere seguite da altre regioni, hanno avviato l’iter per una richiesta di cosiddetto “regionalismo differenziato” a norma del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione per reclamare ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
Sugli ultimi due atti politici, sicuramente legittimi sul piano strettamente formale, ma che ovviamente non riguardano negli effetti solo le regioni in questione come si vorrebbe far credere, il dibattito nel Paese è stato finora pressoché assente.
A nostro modesto avviso il silenzio al riguardo è causato da una sottovalutazione politica degli obiettivi reali che si stanno inseguendo e che cercheremo di analizzare poi nei particolari.
A chi segue con attenzione gli eventi politici dovrebbe essere chiaro che le richieste di secessione della fantomatica Padania prima, di federalismo poi ed oggi di regionalismo asimmetrico a forte trazione leghista, se avessero per finalità un’autonomia solidale, sarebbero poste non a livello locale, ma in sede di Conferenza Stato-Regioni al fine di renderle un atto politico riguardante non tre regioni ma tutte insieme nella loro complessità.
Se questa fosse stata la volontà quindi, si sarebbe partiti non da richieste locali, ma da un tavolo comune di livello interregionale per studiare la migliore attuazione non solo degli articoli 116, 117 e 119 ma anche di quel fondamentale articolo 5 che recita con chiarezza “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” .
In tal modo, oltre ad esigere nuove forme di autonomia per le regioni a statuto ordinario, come previsto dal terzo comma dell’art.116, si sarebbe potuta immaginare anche una discussione sulla eventuale revisione del primo comma dello stesso ponendo il problema di un’eliminazione delle regioni a statuto speciale che avranno avuto origine per comprensibilissime motivazioni storiche, sociali e culturali, ma che tuttavia oggi vanno sicuramente riconsiderate domandandosi se abbia ancora un senso la loro esistenza sul piano politico ed istituzionale.
Insomma, per essere chiari fino in fondo, noi ci chiediamo in maniera smaliziata , ponendo il tutto come un quesito scottante alla riflessione comune, se la richiesta di maggiore autonomia unicamente da parte di tre regioni settentrionali sia volta solo a valorizzare le loro potenzialità o abbia invece il fine di una deriva localistica da parte di territori più sviluppati che rincorrono risorse finanziarie aggiuntive.
In questo secondo caso si rischierebbe una diminuzione quasi certa del fondo perequativo previsto dal quinto comma dell’art. 119 che recita: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
In tal modo, è inutile sottolinearlo, a soffrirne sarebbero soprattutto le regioni meno sviluppate economicamente ed in particolare quelle del Mezzogiorno dove il fondo perequativo avrebbe dovuto garantire in maniera almeno adeguata alcune esigenze fondamentali ancora limitate sul piano della qualità della vita quali sono i diritti alla casa, al lavoro, alle cure sanitarie, all’istruzione e ad infrastrutture decenti.
Così la Questione Meridionale, la cui locuzione fu impiegata già dal deputato radicale lombardo Antonio Billia nel 1873, lungi da soluzioni accettabili, rimane irrisolta a tutti gli effetti non essendo la politica riuscita a ridurre il gap, già sottolineato da taluni meridionalisti come F. S. Nitti o G. Salvemini, tra le due Italie geografiche a diversa trazione economica e sociale.
L’attivazione di un’autonomia fortemente differenziata con uno sviluppo a diversa velocità, che taluni economisti e politici insistono a delineare, aumentando fortemente le competenze di tipo amministrativo e legislativo nelle materie concorrenti con lo Stato ed in quelle esclusive, non può che accentuare le disuguaglianze sul piano territoriale in particolare per le regioni più piccole che finiranno per perdere magari la stessa autonomia.
Non ci meravigliamo delle posizioni di talune forze politiche che hanno stimolato e stanno sostenendo la richiesta di regionalismo differenziato perché sappiamo che i loro principi ispiratori non sono orientati alla coesione unitaria delle realtà locali prevista appunto nel già citato articolo 5 dei Principi Fondamentali della Costituzione italiana.
Ci lascia al contrario esterrefatti l’assenza nella riflessione su tale tema di quanti per anni si sono riempiti la bocca di ideali quali la solidarietà e l’eguaglianza.
Anche l’ipotesi della costituzione delle macroregioni, pure lanciata da molti anni, non ha fatto passi significativi a testimonianza del fatto che anch’essa è fortemente avversata vuoi per i pericoli di una fagocitazione o marginalizzazione delle regioni più piccole che per gli ostacoli da parte di un provincialismo duro a finire.
Quando in ogni caso si nicchia su questioni così serie, davvero c’è da pensare che forse si stiano fortemente sottovalutando le implicazioni negative sottese del percorso legislativo avviato che dovrà essere analizzato con la capacità di approfondirlo adeguatamente ed eventualmente portato fino al referendum.
Per fortuna quest’ultimo richiede un iter alquanto complesso che dovrebbe aiutare una coscientizzazione generale sulla questione permettendo di acquisire la responsabilità politica che oggi sembra mancare.
Dopo la presentazione della richiesta da parte delle regioni interessate al Presidente del Consiglio dei ministri come al Ministro per gli affari regionali e la consultazione del Consiglio delle autonomie locali, si avvieranno i negoziati tra lo Stato e gli Enti territoriali interessati; successivamente il Governo o altri titolari di iniziativa legislativa presenteranno alle Camere il disegno di legge che dovrà essere approvato a maggioranza assoluta ed eventualmente sottoposto a referendum popolare secondo le disposizioni dell’art. 138 della Costituzione.
Il percorso, come si vede, è lungo e dunque dovrebbe permettere di uscire da quell’indifferenza che sembra avvolgere la maggior parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Qualche spiraglio negli ultimi giorni sembra aprire spazi a taluni dibattiti territoriali.
Occorre animarli e diffonderli per arrivare possibilmente ad un tavolo di lavoro interregionale in grado di delineare la struttura di un autonomismo che preservi l’unità della nazione e la garanzia di un’equità nella distribuzione dei fondi pubblici per lo sviluppo dell’intero territorio dello Stato.
Non vorremmo davvero che, se non si è riusciti fin qui a stravolgere la Costituzione italiana con un unico tentativo, si provi ora a destrutturarla con diverse modifiche parziali ma certamente altrettanto destabilizzanti per il Paese.
di Umberto Berardo