Il capretto devoto
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
17 gennaio 2019
Era in uso in paese, almeno fino alla seconda guerra mondiale, benedire gli animali domestici. L’occasione canonica sarebbe dovuta essere la festa di sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, e in questa data mi piace ricordarla, anche se i frati minori, sostituendo alla devozione per l’antico eremita quella per sant’Antonio di Padova, francescano come loro, la benedizione la impartivano il 13 giugno.
Sul sagrato del convento era tutto un tripudiare di capre e pecore, qualche maialino, asini, muli, cavalli… I contadini cercavano di tener quiete le bestie legandole con le corde agli anelli metallici infissi nel muro, o carezzandole con le mazze di “ranello”, le cosiddette “sagliocche”, che ammansivano anche le più irrequiete.
La cerimonia prevedeva che, durante la celebrazione della messa cantata, officiata da tutti i frati, il padre guardiano si affacciava sul sagrato e benediva tutta quella massa di povere bestie che con belati, ragli, nitriti, muggiti, scampanio dei campanacci al collo, unitamente ai latrati dei cani di guardia, creavano un’atmosfera assordante e caotica.
Mio nonno mi raccontava che da giovane fu testimone di un episodio singolare. Un ragazzo molto povero, approfittando della gran confusione, si era impossessato di un capretto che aveva nascosto nel confessionale. Per la fretta non era riuscito a imbavagliarlo opportunamente, sicché, dopo un po’ i belati disperati che provenivano dal confessionale richiamarono l’attenzione dei fedeli. Com’era giusto, dell’accaduto si rise e qualcuno coniò un nuovo detto: “U peccate du mariule l’ha cunfessate u crapitte!” (Il peccato del ladro l’ha confessato il capretto).
(Foto : la benedizione degli animali al convento di Toro)
di Vincenzo Colledanchise