L’Argentina e l’italiano – 3
Il destino della lingua italiana in Argentina e i risultati della sua fusione con lo spagnolo
di Paola Giunchi
25 gennaio 2019
Pubblichiamo con piacere e per concessione dell’autrice uno studio di Paola Giunchi, (1986), L’Argentina e l’italiano, «Italiano e oltre», il destino della lingua italiana in Argentina e i risultati della sua fusione con lo spagnolo – Terza Parte
3. Il lunfardo
Dal punto di vista linguistico, se il cocoliche rappresenta lo sforzo dell’emigrato verso l’integrazione, il lunfardo manifesta la capacità della cultura locale di adattarsi ai nuovi arrivati. La misura di questa assimiliazione può appunto essere evidenziata da una attenta analisi del gergo dei ceti più bassi di Buenos Aires, generalmente noto come la lingua della malavita e del tango argentino. Questo gergo nasce come repertorio lessicale della delinquenza locale i lunfardos o più brevemente lunfa che via via hanno incorporato molte voci gergali italiane raccolte dagli emigrati. A dispetto della censura degli ambienti accademici ufficiali del tempo, il lunfardo assume le caratteristiche di un vero e proprio stile letterario grazie a giornalisti, scrittori di teatro popolare e parolieri di tangos e milongas che lo sfruttarono per ricreare il linguaggio dei ceti più bassi e dell’emigrato.
Stabilire il rapporto esistente tra lunfardo e le lingue dell’emigrazione non è semplice, poiché moltissimi sono i dialetti italiani che hanno contribuito ad arricchire la lingua della mala locale, Non si tratta comunque di un legame così esclusivo come indicò chi riteneva il lunfardo un groviglio di dialetti italiani mutualmente intellegibili.
In realtà l’influenza dei dialetti e soprattutto dei gerghi italiani non è mai stata così esclusiva. Tra gli emigranti non vi erano solo italiani e comunque il lunfardo nasce come fenomeno locale e si sviluppa in genere letterario per opera di giornalisti, autori di sainetes e di opere grottesche, ed anche di poesie e di tangos, non necessariamente italiani di origine. Le voci di questo repertorio lessicale assumono le dimensioni di un genere letterario il cui codice riflette l’osmosi tra le lingue degli emigrati e quella del mondo della malavita locale.
Per dare una idea delle caratteristiche della letteratura lunfardesca, riportiamo una famosa milonga di Carlos de la Pila, Linea 9, scritta nel 1928 *.
- Era un boncha boleao, un chacarero que piyó aquel nueve en el Retiro, nunca vieron esparo 2, ni lancero,
- un gil a la acuarela mas a tiro.
- Era polenta 3 el bobo y la marroca, y la empiedrada fule berretín 4
- de grilo la casimba daba boca
- y le orejaba un poco el chiquilín.
- El rropaé 5 que acusa ese laburo 6 trabucó despacito al boncha de culata 7 pero el lancero trabajd de apuro
- y de gil casi mas mete la pata.
Era un bondi de linea requemada con guarda batidor cara de rrope si no salta cabrón por la mancada 8 fue de chele nomis de puro dope.
* Era un coltivatore appena arrivato dalla campagna, stordito e sprovveduto / che si prese quel tram alla stazione di Retiro / né scippatore né spalla avevano mai avuto a tiro un pollo tale.
L’orologio era d’oro e pure la catena, la pietra invece era falsa / dalla tasca laterale dei pantaloni sporgeva il portafoglio del boccone / e il taschino davanti gli faceva un’orecchia.
La spalla faceva bene la sua parte in questo lavoro stando di spalle alla vittima e bloccandogli i movimenti / ma lo scippatore agi sbadatamente e poco ci manca che come un cretino faccia cilecca. Era una linea che la polizia teneva d’occhio e c’è mancato davvero un pelo che il controllore, faccia di mastino, non si è messo in mezzo mandando il colpo all’aria.
È impossibile rendere adeguatamente lo stile in cui è scritta Linea 9 senza fare ricorso al registro gergale che l’autore ha volutamente usato per narrare, attraverso la voce di un malavitoso, la storia di questo scippo. Non è sufficiente infatti conoscere lo spagnolo standard per comprendere l’evolversi degli avvenimenti in questo ‘lavoro’ fallito per poco. Per interpretarlo è infatti necessario conoscere i meccanismi che regolano il lunfardo: inversioni nell’ordine delle sillabe delle parole: ad esempio rropaé per perro, chele per leche, ma soprattutto scoprirne le metafore ed i prestiti acquisiti dai vari dialetti degli emigranti. Se analizziamo le voci lessicali della poesia, osserviamo che una buona metà di esse sono lunfarde e tra esse il 40% è derivata da voci dialettali e gergali italiane.
Vediamo le espressioni lunfarde di derivazione italia¬na che nel testo sono contrassegnate con i numeri da 1 a 8.
- se piyó: si prese. Invece del verbo tornar «prendere», in lunfardo viene preferita la voce dialettale genovese piaggi’.
- esparo. Da spara el tir nel senso figurato di aiutante dello scippatore, pronto all’avvisarlo in caso di pericolo.
- polenta.In lunfardo la voce italiana polenta, che nella nostra lingua è associata a lentezza di riflessi assume il senso di vigore, potenza. Per il suo caratteristico colore giallo oro, diventa sinonimo del metallo prezioso ed è ap¬punto in questo senso che viene qui impiegato. Polenta può anche avere funzione di aggettivo, unicamente usato al femminile per indicare una donna fenomenale.
- berretin. Dal genovese beretin, «cappellino», in lunfardo passa a significare «pallino, capriccio, idea fissa». Cappello, che in spagnolo è sombrero, in lunfardo si dice invece funyi, altro termine di derivazione italiana.
- rropaé. Questa parola è il risultato dell’inversione delle lettere di esparo con la caduta di /s/ che in posizione preconsonantica tende a scomparire quasi completamente. La parola anagrammata è di derivazione gergale italiana come abbiamo visto al (2).
- laburo. Dalle voci dialettali lavoro e dall’italiano lavoro nel senso di furto. Il termine è entrato ormai nel linguaggio colloquiale per indicare fatica.
- culata. Dall’italiano culatta, «di spalle».
- guarda batidor. Dall’italiano guardare e battere, ovvero «fare una soffiata, il controllore delatore».
- mancada. Dall’italiano mancare, «fiasco, fallimento».
4. L’italiano oggi
Sin qui abbiamo tentato di osservare i fenomeni di ibridazione determinati dal contatto tra gli emigrati italiani e la società argentina e l’assimilazione delle voci gergali e dialettali italiane nel lunfardo. Se invece volessimo indagare sullo stato di salute dell’italiano parlato dai nostri emigrati a distanza di più di un quarantennio dall’ultima emigrazione massiccia, dovremmo porci nella prospettiva conversa ed osservare l’influenza che lo spagnolo parlato in Argentina ha esercitato sull’italiano.
Le considerazioni che faremo a proposito del documento che presentiamo qui di seguito non sono certo estendi-bili a tutta la situazione dell’emigrazione nel suo complesso. Ci sembra, tuttavia, che la lettera che riproduciamo fedelmente sia una spia indicativa dello stato di salute dell’italiano parlato oggi dagli emigrati di origine italiana.
La lettera è scritta da una signora di origine calabrese di 69 anni residente in Argentina dagli anni Quaranta ed è indirizzata al figlio che risiede in Italia.
Carisimo figlio,
abbiamo ricevuto tu carta e mi rallegro che stai bene di salute, che essa è la mia felicità. Caro figlio ti scrivo con pochi giorni di ritar¬do perché con il nene alla tarde non se quale cosa fare primero, di più io mi immaginavo che per il compleanno lo chiamavi a papà. Non sai caro figlio l’allegria che abbiamo avuto nel sentirti par¬lare, ci sembrava di essere sercha, solo che è capace che ti è salito muchio la chiamata perché tutti ti volevano salutare e non le potevo dire di no. Caro figlio per l’assunto della pinzione di Italia ancora non si rape niente, é capace che é mentira, speriamo che no, qualcher cosa ti faccio sapere. Mi ha scritto la zia Amalia, mi dico che si cambia di nuovo di casa e che tu la fusti a visitare, mi allegro molto, di più mi dico che il 5 di Ottobre fa le nozze di argento e era contenta se io stavo presente. Io ora ci scrivo caro figlio e ci mando gli auguri per carta, che ora per fare un telegramma mi sale ma di 200 miggione. Se a giugno mi saliò 90, ora chissa lo che sale. Se tu la chiami ci dai gli auguri di parte mia.
Caro figlio per papà come ti dicevo si ha fatto un ceccheo generale analisi di sangre, di orina, radiografia di torace e di rignone… e il dottore dico che tutto sta bene, l’unico che tiene la pressione alta. Sta tornando qualcher cantidà di pastiggia, però non vaca se un giorno vaca l’altro suve, io penso che sarà dello nervio, che lui per qualchei- cosa si pone nervoso, torna pure pastiggia per lo nervio però sta dormido todo il dia, paresse un trappo di piso non tiene forza per nada, ieri è stato qua il capitano, vino con Pino a salutarlo, che lo cambiano di quartel, e lo dico a papà che quello che tiene è tutto mentale, che lui pensa che sta infermo e esso le fa male, che si distrae che non pensa a niente però lui a ogni cosa: a me lasciatemi stare che io sono malato. L’altro giorno la Rosalba lo accompagnò a medirsi la pressione e dico che le dico io in Italia stavo bene e io sono sicuro che se vado in Italia mi curo che qua mi faccio mala sangre todo lo mese aumenta il gas, la luce, gli imposti e lui risonga però il soldo ci danno una miseria, ora Pino dico a papà lo porta Bosia dal dottore che mi portò a me, che qua le fa guastare plata tutte le settimane di pastiggie e la pressione non vaca. [..Mpproposito caro figlio, la Rosalba ti ringrazia per la plata che ci mandaste al nene di sorte che non la saccarono. Dico papà che non mandi nada che se lo robbano. Luciano il 16 di Ottubre che é il Dia della madre si prende la comunione. Se tu pensi chia-mare esso dia se non siamo qua siamo della Anna. […]
Questa lettera è una radiografia dell’ibrido, per molti versi l’esatto converso del cocoliche parlato dai primi emigrati nel loro tentativo di esprimersi in spagnolo. Alcune manifestazioni rappresentano infatti il fenomeno opposto del mistilingue a base italiana, determinando un sistema in cui vi è un continuo cambiamento di codice, italiano e spagnolo, in cui le due lingue interferiscono a vicenda costantemente,
Dall’ortografia della lettera è possibile ricostruire le caratteristiche più salienti del mistilingue della sua autrice. Si potrà notare che gli stessi fenomeni di interferenza del sistema fonologico italiano sullo spagnolo del cocoliche, ridicolizzati e sfruttati nella letteratura popolare, sono presenti qui. La coincidenza tra i due sistemi, l’italiano e lo spagnolo, impedisce di cogliere i relativi contrasti e favorisce lo sfruttamento delle risorse disponibili, gli elementi già acquisiti nella propria lingua al posto di elementi nuovi della seconda lingua. I parlanti di cocoliche utilizzano gli elementi del sistema fonologico dell’italiano più prossimi a quei fonemi dello spagnolo che divergono. Così l’occlusiva velare sorda /k/ rimpiazza la fricativa corrispondente /x/ e parole come dijo, conejo, mejor sono sostituite in cocoliche da dico, coneco, mecor; la fricativa labiodentale sonora /v/ sostituisce l’occlusiva bilabiale corrispondente /b/ di modo chè baja (scende) diventa vaca e sube (sale) su ve. Per quanto riguarda la fricativa palatale presente in garage che nello spagnolo di Buenos Aires sostituisce anche la laterale palatale /X/ di calle, million, essa viene resa con l’affricata sonora dell’italiano per cui si hanno le forme pastiggia, o miggione, in luogo di pastillas, millones. Oltre a questi fenomeni di interferenza in cui è chiara la fossilizzazione di elementi dell’italiano che impedisce l’acquisizione degli aspetti più di vergenti dello spagnolo, vi è una ultima caratteristica che contraddistingue l’italo-spagnolo; l’enfatizzazione della /s/ all’interno di parola che invece tende a scomparire, e la sua caduta in posizione finale. Tipica è la caduta della -s del plurale dei nomi, come ad esempio lo nervio per los nervios della prima persona plurale dei verbi (vamo, somo, per vamos, somos).
A livello morfologico, oltre alla tendenza comune nel cocoliche ad inserire le terminazioni delle forme verbali dell’italiano sulla voce lessicale spagnola come in saccarono (presero), robbano (rubano), si osservano forme dello spagnolo carta (lettera), mentira (bugia), assunto (questione), quarte] (caserma), infermo (malato), nada (niente) ed altre mistilingue come feficidà, muchio, pinzione, sercha, sape. In quest’ultimo caso, mentre per la prima persona viene usata la forma corretta dello spagnolo non se (non so), per la terza compare questo ibrido non si sape (non si sa) in cui vi è probabilmente una sovrapposizione tra il dialetto di origine e la forma spagnola sabe.
«Le digo comandante, me dice Caruso, le digo Comandante me dice Caruso, le digo, me dice, le digo, me dice».
di Paola Giunchi