Letteratura capracottese: “Il ritorno dei pastori”
Storia di vita familiare raccontata da Antonio Dell’Armi
di Antonio Dell’Armi (a cura di Francesco Mendozzi – da letteraturacapracottese.com)
12 giugno 2019
La guerra del 1915-18 ci aveva lasciato orfani di nostro padre. Io ero appena nato, perché sono del dicembre 1915 e mio padre forse morì nei primi mesi del 1916, ma una data precisa non si è mai conosciuta. Negli archivi del Ministero della Difesa la data di morte è addirittura registrata al 23 maggio 1917, per niente attendibile.
Comunque sia, non l’ho mai conosciuto, così mi diceva sempre mia madre, perché sono il quarto figlio dopo tre maschi e una femmina, scomparsa all’età di sei anni. Posso quindi confermare la disperazione di una giovane donna che a ventisei anni, con quattro figli, perde il suo compagno.
Mio padre e mio nonno Pasquale erano agricoltori d’estate e carbonai d’inverno grazie a mio nonno materno Alfonso Carugno, che risiedeva a Torremaggiore (FG), dove era rivenditore di carbone. Quel carbone e quella carbonella, che mio padre e suo padre facevano nei boschi della Daunia – nell’entroterra e sulle alture pugliesi – veniva rivenduto a Torremaggiore, grande comune agricolo nel quale nonno Alfonso abitava e possedeva la rivendita.
Dopo il matrimonio dei miei genitori, avvenuto il 30 luglio 1906 a Capracotta, paese di origine di entrambe le famiglie, si sviluppò fra le stesse quella reciproca stima e cordialità che però ebbe fine alla morte di mio padre.
>Mio nonno Alfonso, occupato dalla vendita del carbone, in estate s’interessava anche alla compera di piccoli appezzamenti di bosco dove mio nonno Pasquale e mio zio Filippo Di Rienzo potevano lavorare d’inverno e rifornire così la rivendita di Torremaggiore, per poi far ritorno in primavera nell’Alto Molise. In quel lasso di tempo che va dal 1906 al 1916 mio padre affittò una casa in largo Riccianti, a Casalvecchio di Puglia (FG), un paese nelle vicinanze dove teneva i lavori invernali.
È lì che tutti noi siamo nati, ad eccezione di mio fratello Pasquale, che è nato a Capracotta. È lì che in dieci anni di giovinezza mia madre e mio padre, che lavorava d’inverno, crescevano i figli facendo la spola tra Casalvecchio a Torremaggiore, ove invece risiedevano i nonni materni.
Alla morte di mio padre non potemmo più andare in Puglia perché nonno Pasquale, non più giovane, avendo perso il figlio in guerra non se la sentiva di affrontare lavori boschivi così faticosi. Questa fu la ragione per cui la famiglia non si mosse più da Capracotta.
Avendo perso il sostegno di nostro padre, benché non ce ne rendessimo conto, ci venne a mancare quell’amore paterno e quelle carezze attraverso le quali ogni bambino trova conforto. Nonostante nonno Pasquale e nonna Angelarosa non ci facevano mancare niente, mia madre, poveretta – una di quelle donne piene d’amore verso i figli – aveva sofferto un dolore troppo grande che l’aveva distrutta.
Ancor oggi ricordo, come in sogno, gli strazi di mia madre, specie in estate quando il paese era in festa, e passava la statua del santo e c’era la banda, lei, al suono delle note musicali, mentre tutti erano in vena di festeggiare, si straziava tirandosi i capelli e graffiandosi il volto. Io la guardavo attonito ma ero così piccolo da non capirne il significato. Anno dopo anno, ormai grandicelli, io e i miei fratelli maggiori cominciammo la scuola andando incontro a qualche difficoltà.
Non che lo Stato a quei tempi avesse tanta solerzia verso i figli di chi, per difendere la Patria, ci aveva rimesso la pelle. La pensione di guerra per mia madre – non ricordo con precisione -, considerando i tempi, la si può valutare attorno al centinaio di lire mensili.
Non finimmo nemmeno le scuole elementari ché, uno dopo l’altro, seguimmo la strada di tanti ragazzi del paese, cioè la custodia dei greggi. Capracotta, a quota 1.421 metri sul livello del mare, era un paese emigrante. D’inverno dovevi andare via per guadagnarti da vivere, perché l’invernata era lunga, noiosa e senza risorse. Un paese in maggioranza dedito alla pastorizia, all’agricoltura ma anche all’artigianato. Per tradizione i capracottesi custodivano ed amministravano quasi tutto il patrimonio zootecnico pastorale delle grandi famiglie terriere del Tavoliere, precisamente delle famiglie Mascia di San Severo, Petrilli di Lucera ed altre. Non saprei indicare con precisione quante persone erano impegnate attorno a questa massa enorme di animali che si doveva custodire, ma eravamo in tanti, quasi un terzo del paese, perché si trattava di custodire oltre 15.000 pecore, e poi vacche, capre, cavalli, muli: tutto ciò che faceva parte del patrimonio pastorale.
Ecco, a proposito dei ragazzi di Capracotta del 1925-30 e del loro destino, dirò che tantissimi seguivano le orme del genitore, cioè la custodia del gregge, ed anche coloro che non avevano parenti adulti nella pastorizia seguivano spesso la stessa sorte perché quello era l’unico mestiere che non richiedeva specializzazioni. Era sufficiente la robustezza fisica perché si trattava di affrontare una vita piena di incognite e di sacrifici, specialmente da ottobre, quando si intraprendeva a piedi il lungo viaggio sul tratturo per recarsi nella provincia di Foggia, a giugno dell’anno successivo. Per un ragazzino in tenera età erano dolori, soprattutto il primo anno, poi, col passare del tempo, ci si abituava a quella vita e sembrava una cosa normale. Anche perché – debbo dire la verità – io che ho fatto quella vita per cinque-sei anni, fino a quando sono diventato giovanotto, mi ci trovavo alquanto beLa cosa certa è che alla fine del mese portavi a casa qualcosa. Un qualcosa che era molto poco, era niente per noi ragazzi, ma i pastori adulti avevano un salario. Non ricordo a quanto ammontava, ma la parte più sostanziosa era quella in natura: 40 chili di pane al mese, un litro di olio ed un chilo di sale ma anche la lana e il formaggio, perché quando era il periodo della mungitura, non mancava il latte o la ricotta.
Credo che a quell’epoca l’unica via da intraprendere, la più sicura e anche la più economica e redditizia, era proprio quella pastorale. I vecchi pastori erano dei saggi padri di famiglia. Ricordo che per noi ragazzi quella era una vita spensierata ed armoniosa, e ci sembrava di stare in famiglia perché per ogni grande partita di pecore il personale era costituito da circa 20-30 persone di ogni età.
I butteri erano figure prestigiose nell’azienda.
Ogni partita di pecore aveva un elemento addetto al disbrigo di tutte le faccende e al trasloco delle masserizie: questi era il buttero. Essi tenevano in custodia dai quattro ai cinque muli, ben custoditi e nel massimo ordine. Il loro dovere era di accudire a tutte le necessità di cui aveva bisogno un’azienda di quel tipo. Da quando si partiva dalla Puglia per ritornare in montagna, essi si preparavano accuratamente, operosi e zelanti, e durante il tratturo facevano e disfacevano le mandrie e caricavano sui muli ogni cosa, compreso il fardello (cioè il pagliericcio), e niente doveva rimanere a terra. Quando tutto era finito si mettevano in cammino una retina dietro l’altra, già sapendo dove bisognava accamparsi per la sera. Appena arrivati, scaricavano le mule e componevano le mandrie per le pecore e la tenuta comune per i pastori, e così via sul tratturo per sei-sette giorni, fin quando non si arrivava a destinazione, dove il gregge avrebbe sostato tutta l’estate.
A Capracotta, d’estate, con i muli si compievano tanti lavori che cominciavano a giugno, dal trasporto del fieno a quello della legna. Si trasportava la legna dai boschi comunali alle case dei pastori e non solo, dal sindaco a tutte le autorità pubbliche, le suore, i fornai e gli altri tanti paesani che erano interessati allo scambio con l’attività pastorale. Dopo di ciò avveniva la mietitura e i butteri trasportavano sui muli i covoni dai terreni dell’agro capracottese alla trebbia.
A quel tempo c’era tanta operosità, talmente tanta che era difficile trovare una persona che girava per strada senza far niente. Tutti, grandi e piccoli, avevano premura di rimettere in casa tutto ciò che si raccoglieva nei campi perché sapevano che presto sarebbe arrivato l’inverno e chi non aveva da mangiare o non aveva la legna da ardere passava un’invernata triste. I pastori e il personale interessato allo sviluppo aziendale, dopo aver trascorso l’estate in montagna con serenità ed armonia, all’avvicinarsi dell’autunno cominciavano a mettersi in moto verso la dimora invernale perché c’era una percentuale di pecore prossima al parto.
Benché siano passati sessant’anni, ricordo i nomi di tanti vecchi pastori che ho conosciuto e di cui ebbi modo di apprezzare l’operosità e la bontà. Poco fa dicevo che ho fatto questa vita per cinque-sei anni: ero insomma abbastanza grande quando abbandonai il mestiere per dedicarmi ad altro.
Ero già grande per meditare ed osservare.
Ripenso spesso ai fatti di quella vita semplice. Quando, a fine maggio, si avvicinavano i giorni della partenza dalle Puglie verso le montagne, pareva che gli animali se ne accorgessero, perché davano segni di insofferenza. I pastori, che per tanti mesi erano stati lontani dalle loro case e dalle loro donne, aspettavano con impazienza quei giorni contandoli sulla punta delle dita come fa il soldato quando deve andare in congedo.
E lo stesso facevano le mogli, le sorelle, le madri, le fidanzate dei pastori, che aspettavano con ansia il giorno del ritorno per andare incontro ai propri cari con un canestro, accuratamente preparato, colmo di ogni ben di Dio, e si mangiava in campagna, raccontandosi le emozioni della lunga assenza, specie tra i più giovani e tra i novelli sposi.
L’intero paese era interessato al ritorno dei pastori perché lo sviluppo di Capracotta era per tanti motivi legato a questa grande fetta di popolazione. Il calzolaio aspettava i pastori con ansia perchè si trattava di calzare centinaia di persone che tornavano dalle Puglie – i calzolai di Capracotta facevano le scarpe a mano ed erano rinomati per la loro bravura. Anche i sarti aspettavano i pastori, coi quali scambiavano il lavoro col formaggio fresco e profumato, come i fornai rifornivano in estate tutta la pastorizia del loro pane profumato. I contadini dei paesi vicino Capracotta aspettavano le greggi per raccogliere il letame di pecora, prelibato per la campagna e in special modo per la vigna.
È stata una vita che è andata avanti fino al 1943, quando l’ultima guerra ha distrutto tutto il patrimonio pastorale.
di Antonio Dell’Armi (a cura di Francesco Mendozzi – da letteraturacapracottese.com)