• 5 Luglio 2019

Transumanza nel Settecento: per chi fu civiltà?

Franco Valente, in uno scritto del 2009, riporta le considerazioni che nel 1789 il conte svizzero Ulisse de Salis Marschlins fece dopo un viaggio da Napoli a Sulmona

di Franco Valente – fb

5 settembre 2019

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Nel 1789 il conte svizzero Ulisse de Salis Marschlins fece un viaggio da Napoli a Sulmona, passando per la Marsica, per tornare a Napoli dopo aver attraversato Isernia e Venafro.

Tra le altre cose descrisse l’inumana condizione dei pastori che seguivano le greggi dall’Abruzzo al Tavoliere delle Puglie, rimanendone sconvolto.

“Fra Castel di Sangro ed Isernia, trovai numerosissimi armenti di pecore, che viaggiavano verso il Tavoliere di Puglia, e seppi che in questa parte dell’Abruzzo, la popolazione non vive che dall’allevamento e dall’ ingrassamento degli ovini.

Il tratto fra Isernia e Popoli, vale a dire una estensione di 50 miglia, alla estremità della vallata di Sulmona verso il nord, ed il tratto che comincia dal lago di Celano attraverso il Marrone ed il Matese, vale a dire una estensione di 60 miglia, non sono – salvo nella parte settentrionale della vallata di Sulmona – che territori montagnosi, con pochissimi paesi e qualche villaggio appollaiato sulle vette più alte della roccia.

Gli abitanti di questi borghi vivono in uno stato direi quasi selvaggio, non avendo nessuna comunicazione con i vicini, ed avendo ciascuno un modo di vestire speciale, da parecchi secoli, ed assolutamente differente l’un villaggio dall’altro. Così, fra le donne di Scanno prevale un costume quasi greco, mentre quelle di Rocca Valoscuro, ne portano uno che arieggia lo stile gotico, e le donne di Gallo vestono un abito molto simile a quello dei Francescani dell’Ordine; ma non riuscii a capire l’origine di questi costumi, se avessero cioè relazione con le diverse nazioni di cui arieggiavano la foggia. La differenza fra i costumi che ho trovato non solo qui, ma in quasi tutto il Regno fra le varie provincie, ed anche fra le varie borgate, è una cosa che ho trovato interessantissima, e degna di studio speciale.

Tutti gli uomini di questa regione si dedicano alla speculazione ed alla cura del gregge, senza distinzione, si può dire, di qualunque ceto e di qualunque ordine: il ricco ed il povero, il prete ed il laico, il monaco e le monache, non vi parlano d’altro se non del loro gregge; ed i regolamenti in vigore da tempi remotissimi, vengono tuttora religiosamente rispettati.

Una così detta morra di pecore, viene formata da 350 capi, posti sotto la cura di un pastore, di un bùttaro che manifattura il formaggio, e di un capolattaio che vien chiamato buttaracchio.

Fanno parte del seguito di una morra anche due cani, un mulo destinato a trasportare gli utensili necessarii per fare il formaggio, ed i pochi indumenti dei pastori.

Varie morre formano una mandria, a capo della quale stanno un capo pastore o massaro, un sotto massaro ed un capo bùttaro ovvero capo lattaio, oltre i singoli capi gia nominati. Questi uomini ricevono una medesima paga, che consiste in 24 ducati l’anno per i tre primi posti; un medesimo nutrimento, che consiste in pane, olio, sale, formaggio pecorino e latte; e nei medesimi indumenti, che consistono in una specie di casacca formata da due pelli di pecore cucite insieme, con un foro di dove passa la testa e due fori per le braccia, una ruvida camicia, un paio di brache di stoffa altrettanto ruvida, ed un paio di sandali. Non vi è fra di loro neanche distinzione di alloggio e di letto, perchè serve loro di giaciglio la madre terra, sotto il riparo di una tenda formata di pelli.

Ad un bambino di cinque anni, vengono affidate dalle otto alle dieci pecore o capre, le quali egli conduce a pascolare nelle vicinanze del paese. A sette anni egli e in grado di fare il suo primo viaggio in Puglia, e riceve oltre al su menzionato nutrimento e vestiario, 8 ducati per il primo anno, ed 1 ducato in più ogni anno successivo, sino a che non raggiunga l’età di sedici anni, quando riceve cioè 18 ducati l’anno, che è la paga di un sotto pastore. Per la cura degli armenti di ovini, tutti gli uomini di questa zona vivono sei mesi dell’anno in Puglia, separati dalle mogli, le quali in loro assenza hanno cura del poco grano e dei vegetali necessari alla propria esistenza.

Secondo me, dopo aver bene studiato e riflettuto circa l’utile che si ricava dal lavoro di queste popolazioni, mi sono formato il criterio che né questo esteso tratto dell’Abruzzo, mal coltivato e poco abitato, né il Tavoliere di Puglia, entrambi destinati intieramente all’allevamento degli ovini, rispondano al vero e più proficuo mezzo di produzione e di speculazione; perché, eccettuato Arpino e Balena, dove si manifatturano pochi ruvidi tessuti, non si ricava quasi nessun utile dalla lana degli Abruzzi, la quale non viene neanche raffinata sul posto, ma venduta grezza a Trieste. Io capirei l’abbandono di ogni altro ramo d’agricoltura in favore dell’allevamento degli ovini, quando si ottenesse buon prodotto anche dalle lane, destinando cioè parte della popolazione alla produzione delle piante atte alla tintura, e parte al lavoro di preparazione e colorazione dei tessuti ed altri articoli, risparmiando così al paese l’onere delle importazioni estere; mentre l’altra meta degli abitanti fosse dedicata all’allevamento ed alla sorveglianza del bestiame. Ma così com’é oggi, la produzione non risponde né al lavoro né al capitale impiegato.

Le abitudini ed il modo di vivere del popolo Abruzzese, che forse ha ereditato dai primitivi abitatori d’Italia, o dalle antiche orde dei pastori d’Oriente che conquistarono e devastarono il centro d’ Italia per secoli interi, dovrebbero essere soggetto d’interesse e di studio per ogni cultore di leggi sociali. La selvatichezza delle loro maniere e dei loro costumi, e lo stato primitivo delle loro idee, appartengono ai tempi quando gli uomini vivevano in un perfetto stato di incoscienza, così per qualsiasi cognizione di diritto sociale, come per la religione istessa.”

di Franco Valente – fb

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