La capra di Montefalcone
Il patrimonio territoriale è ciò che un territorio possiede, il risultato dell’incontro tra uomo e natura
di Rossano Pazzagli (da La Fonte, settembre 2019)
13 settembre 2019
La capra come espressione di un territorio e simbolo del suo riscatto. Il patrimonio territoriale è ciò che un territorio possiede, il risultato dell’incontro tra uomo e natura. Dobbiamo concentrarci su questo se vogliamo evitare di ripetere un errore storico, che stiamo pagando a caro prezzo: quello di applicare modelli di sviluppo esogeni, non adatti ai caratteri e alle vocazioni locali. Dobbiamo farlo rileggendo i territori per comprendere le effettive risorse che essi possiedono, cercando sempre le specificità, non l’omologazione. Per questo c’è bisogno della storia, perché la storia di ogni luogo ci può indicare le sue potenzialità, aiutandoci a stare sulla retta via.
Prendiamo stavolta l’esempio di Montefalcone nel Sannio, che tra le sue specificità può vantare una razza autoctona di capra, un animale che per secoli ha rappresentato un’importante risorsa economica. Più di 300 anni fa, alla metà del ‘600, secondo un apprezzo feudale conservato presso la Biblioteca Albino di Campobasso, a Montefalcone vivevano circa 150 famiglie e nel suo territorio pascolava molto bestiame: un discreto numero di bovini, ma soprattutto oltre 500 pecore e più di 1000 capre. A questi si aggiungeva la moltitudine di animali selvatici, sostenuta anche dalle buone acque di sorgente e del vicino Lago Grande che forniva anche tinche ed anguille. Un interessante contesto ambientale nel quale gli abitanti vivevano “con loro fatiche per essere uomini rustici e bracciali e tutto l’anno s’esercitano nella campagna in seminare campi, governare vigne et altri affari.” Cereali, vino, allevamento erano dunque le risorse principali, alle quali si aggiungeva qualche artigiano (due sartori, un ferraro, uno scarparo, ecc.) e arricchite da un intimo rapporto con le produzioni spontanee del bosco e della macchia. Ciò rendeva possibile agli individui vivere “sanamente di lunga età, d’anni sessanta e settanta in circa”, che era molto per quei tempi, in una popolazione locale che appariva anche essere “numerosa di figliuoli e di buon aspetto. Il tutto per la bontà e qualità di detta aria”.
Quasi due secoli più tardi, nel 1836, confermava la presenza di branchi di capre “per lo più menati a pascoli erranti da ragazzi”, coi loro latti “semplici o misti con que’ di pecora” che davano buoni formaggi consumati dalla gente del posto. Con questa struttura economica e sociale la comunità di Montefalcone giunge all’800 e al ‘900. Nel 1861, al momento dell’unità d’Italia, ci stavano 3.210 abitanti, una popolazione rimasta sostanzialmente stabile fino alla metà del ‘900, quando il censimento del 1951 registrava 3.360 residenti. Quella struttura, basata su un equilibrato utilizzo delle risorse naturali, su attività agricole e zootecniche in linea col contesto ambientale e su filiere corte di consumo energetico e alimentare, aveva consentito per secoli la riproduzione sociale. Poi è cominciata la discesa, il declino, particolarmente forte dopo il 1971 per arrivare ai 1.500 abitanti scarsi di oggi.
È la sorte toccata a migliaia di comuni italiani, al Sud come al Centro e al Nord, paesi di campagna, borghi antichi aggrappati alle colline. Ma non è stata colpa del destino; è stata l’altra faccia del boom economico, dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione del Paese. Un Paese di paesi che ha rinunciato progressivamente ai suoi paesi, scegliendo, assecondando o non contrastando un processo diffuso di marginalizzazione, di deriva, di abbandono e di spopolamento. Un processo che oggi va analizzato e compreso in profondità, che ci indica la necessità, o forse l’urgenza, di una rinascita come risposta alla crisi del modello economico generale.
La rinascita non può che basarsi sul patrimonio territoriale. A Montefalcone una serie di iniziative cerca di rimettere al centro del patrimonio territoriale una specificità animale. La capra di Montefalcone, nota anche come “capra di Campobasso” o “capra grigia molisana”, è stata inserita nell’Atlante delle razze autoctone ed è una delle poche razze caprine tipiche ancora esistenti nelle regioni montane d’Italia. Recentemente l’attenzione verso la capra di Montefalcone è cresciuta in virtù della sua capacità di sapersi adattare a territori difficili, nonché in relazione alla tutela del paesaggio rurale e alla preservazione della varietà genetica e per le proprietà nutrizionali dei suoi derivati, primo fra tutti il formaggio. Una serie di ricerche dell’Università degli Studi del Molise coordinate dal prof. Fabio Pilla, una tesi di laurea in Economia del turismo e dell’ambiente, di cui è autrice la giovane montefalconese Antonella Basile, discussa nella sede di Termoli (relatore il prof. Luigi Mastronardi), e un convegno svoltosi in agosto sulle sponde del lago di Montefalcone, promosso dal Comune e dalla Pro-Loco Maronea, intitolato “La capra di Montefalcone nel Sannio: patrimonio territoriale e rinascita delle aree interne”, sono le iniziative più recenti che testimoniano le potenzialità inespresse di una risorsa del territorio e sulle quali l’amministrazione comunale si sta muovendo con in prima fila il sindaco Riccardo Vincifori e l’infaticabile vicesindaco Gigino D’Angelo. L’obiettivo è quello di creare occasioni di rilancio dei paesi e dei territori interni, considerando le aree ingiustamente marginalizzate dal processo di sviluppo capitalistico come un ambito privilegiato per la sperimentazione di nuove forme economiche e sociali, che vedano la partecipazione degli abitanti e la cooperazione di soggetti pubblici e privati. Proprio la costituzione di una cooperativa di comunità finalizzata all’allevamento, trasformazione e commercializzazione delle produzioni della capra di Montefalcone è stata l’idea lanciata da Antonella Basile per stimolare una rinascita delle aree interne, ripartendo dalle eredità territoriali e dai valori identitari, da quello che c’è, non da quello che non c’è.
di Rossano Pazzagli (da La Fonte, settembre 2019)