• 13 Maggio 2020

Albero della cuccagna

I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

13 maggio 2020

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Durante la festa di S. Antonio, nel primo pomeriggio, prima che scendesse la banda a rallegrare il paese con le marce musicali, al centro della piazza fu issato l’enorme palo della cuccagna, alla cui sommità fu posto il cerchio con i soliti doni prelibati. Su quel cerchio dell’albero della cuccagna fu appeso un prosciutto, dei salami, formaggi, che poi vennero posti a circolo; tutte queste leccornie erano state prelevate dagli altarini votivi in onore del santo taumaturgo.

Gli altri doni: agnelli, pasta, uova, vino e olio furono poi venduti all’asta, sulla cassa armonica, per contribuire alle spese dei festeggiamenti. Martinangelo, come al solito, fu addetto ad ungere e ad ingrassare il palo, e man mano che saliva i pioli della scala, i numerosi spettatori assiepati a circolo intorno al palo, non capivano se quell’esagerato luccichio sulla sua fronte era dovuto all’unto o al sudore, alcuni sostenevano che si trattava di semplice emozione nell’intento di ripetere annualmente quel rito, che ormai sapeva di liturgico per la estrema serietà con la quale Martinangelo lo assolveva ogni volta.

Uno stuolo di baldi giovani, forse mossi più dall’esibire la loro forza muscolare che mirare alle leccornie in alto sul palo, avanzarono a turno tentando di salire sul lungo palo della cuccagna, ma il grasso li faceva scivolare e precipitare inesorabilmente a terra solo dopo qualche metro di arrampicata.

Giovanni, quell’anno disoccupato, mosso più dal bisogno di conquistare quel prelibato trofeo, anzichè quello di esibire la sua pur possente forza, fu l’unico tra i concorrenti che riuscì nell’ impresa di portarsi a casa tutto quel ben di dio. Oltre alle sue forti braccia con le quali agganciò il palo, le sue abili gambe si attorcigliarono lungo il palo come una serpe, ed avanzò in alto senza cedere e mai indietreggiare fino ad impossessarsi di quei doni prelibati.

Giovanni, con astuzia, per quell’impresa si era servito di una valida complice: la moglie. Costei aveva dotato il marito di una speciale tuta, fatta di sacchi di iuta, sulla quale aveva cucito almeno una decina di grosse tasche.

Giovanni aveva riempito tutte quelle tasche di cenere, che era servita a cospargere il palo, con rapide bracciate, per avanzare in alto, sulla viscida superficie del palo.

La fatica e la calura, dopo la prova vincente, avevano reso quell’uomo irriconoscibile, madido di sudore e del grasso che si appiccicava come pece su quella tuta di iuta, trasformando quell’uomo in una specie di Caronte, incutendo paura ai bambini presenti numerosi allo spettacolo.

Molti si congratularono col vincitore, senza peraltro potergli stringere la mano, annerita dalla cenere e unta di grasso. Dopo la conquista del ricco trofeo Giovanni sentì il bisogno di pulirsi, ancora una volta fu decisivo l’aiuto insostituibile della moglie, che riuscì a liberarlo da quelle incrostazioni di cenere e grasso lavandolo per ore in una tinozza piena d’acqua calda, con rena, sapone e aceto, come era solita fare quando ripuliva i tegami di rame.

La gioia di Giovanni fu grande quell’anno, non tanto perché vincitore nel divertente gioco, ma perché quella fu occasione propizia, unica, di procacciarsi un prosciutto, salami e formaggi che sfamarono la sua numerosa famiglia per mesi.. 

di Vincenzo Colledanchise

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