Tornare a lavorare nei borghi
L’Italia ha una ricchezza diffusa fatta di luoghi bellissimi, ricchi di storia, tradizioni, relazioni. In tempo di Covid l’opportunità di consentire a tanti lavoratori la riconquista di tali spazi rappresenta una opportunità unica
di Vittorio Pelligra (da ilsole24ore.com)
28 ottobre 2020
Sono circa 243 milioni le persone, che negli USA, vivono concentrate nel 3% della superficie del Paese. Il 3% della superfice occupata dai grandi centri urbani. Sono 26 milioni i cinesi che gravitano intorno a Shanghai, 14 milioni i giapponesi che vivono a Tokyo e 12 milioni di indiani a Mumbai.
Le città sono i giganti della nostra civiltà occidentale; luoghi di innovazione, sviluppo, ma anche di drammatiche esistenze e di insostenibili disuguaglianze. L’incontrollata crescita dimensionale di queste megalopoli assume dimensioni patologiche, quando pensiamo alla qualità della vita media dei loro abitanti, quasi masse tumorali che si espandono fuori controllo.
In quale momento della giornata siete più infelici?
Se provate a pensare alla vostra giornata tipo, qual è il momento nel quale vi sentiti più infelici? Difficile dare una risposta precisa e rigorosa. Una soluzione l’ha trovata Daniel Kahneman, psicologo e premio Nobel per l’Economia, che con una tecnica chiamata “day reconstruction method”, elaborata assieme ai suoi collaboratori, ha cercato di dare una risposta a domande simili. In una ricerca pubblicata su Science nel 2004, Kahneman e i suoi colleghi presentano i risultati di uno studio finalizzato alla misurazione della piacevolezza di una ampia gamma di attività quotidiane.
Cercando di eliminare tutte le distorsioni legate al funzionamento della nostra memoria che, come noto, tende a selezionare solo certi ricordi molto piacevoli o molto spiacevoli e soprattutto quelli più vicini nel tempo, lo studio analizza le giornate di un ampio campione di soggetti ed elabora una classifica, in termini di piacevolezza, delle loro attività quotidiane. Passare tempo con il partner, con gli amici più stretti, sono le attività cui attribuiamo maggiore valore, mentre lavorare e, soprattutto, fare lunghi spostamenti per andare a lavorare, sono le attività più spiacevoli in assoluto.
Dallo studio risulta che, mentre il campione analizzato dedica, in media, circa venti minuti alle attività preferite, passa, invece, più di un’ora e mezza nel traffico o su i mezzi pubblici per recarsi, ogni giorno, dalla propria abitazione al luogo di lavoro.
Il pendolarismo
Essere pendolare sembra, tra tutte quelle possibili, la peggiore occupazione del nostro tempo; quella che ci rende più infelici (A Survey Method for Characterizing Daily Life Experience: The Day Reconstruction Method, Science 306, 1776, 2004). Ma il pendolarismo, questa sorgente quotidiana di infelicità collettiva, non è una maledizione divina, ineluttabile e ineludibile. È piuttosto una delle principali conseguenze del modo in cui abbiamo costruito le nostre città, del modo in cui queste sono cresciute, come metastasi fuori controllo in un organismo naturale e sociale delicato e fragile.
Lo spazio che piega il tempo. La dimensione topologica che condiziona quella psicologica. Eppure erano nate con un’altra vocazione. Mille anni fa le città facevano i cittadini. L’urbs diventava condizione necessaria per l’esistenza della civitas. Iniziano ad emergere, in quel tempo, i tratti caratteristici del tutto nuovi che plasmeranno gli insediamenti urbani originari facendoli diventare ciò che noi oggi intendiamo per “città”.
Sono centomila insediamenti che, in tutta Europa, iniziano ad assumere tratti comuni ed elementi distintivi tali da forgiare non solo il tessuto urbano, ma anche il carattere dei loro cittadini. Sono, innanzitutto, luoghi aperti, capaci di accogliere e di includere, di andare oltre il legame di sangue e della gens. Si diventa cittadini quando si diventa proprietari di una casa e si giura fedeltà agli statuti fondativi. Riti vivi ancora oggi: la residenza, attestata dalla visita formale del vigile di turno, è condizione necessaria per la maturazione dei diritti e dei doveri derivanti dall’appartenenza civica, così come la volontà soggettiva di permanere in un dato luogo e, implicitamente, di rispettarne regole e valori.
Arti e mestieri
Nelle città assume nuovo senso l’ora et labora benedettino che, dopo aver salvato l’eredità classica, inizia a porre le basi per la civiltà europea. Nelle città si affermano arti e mestieri affrancandosi dal gioco dell’organizzazione feudale. I mercanti diventano spina dorsale di una organizzazione economica e sociale nella quale il valore inizia a coincidere sempre più con l’efficienza. Sono, poi, luoghi d’arte, fucine di bellezza. La prosperità economica sfocia nel mecenatismo e lo sfarzo delle dimore private, segnale costoso di ricchezza e potenza, diventa bellezza pubblica.
La bellezza delle facciate dei palazzi è bellezza rivolta all’esterno, visibile, almeno in parte, condivisa. Forse è anche per questo, e per il groviglio di interessi e storie, che la città inizia, lentamente, ad assumere una sua personalità distinta. Non più la somma di una moltitudine di cittadini, ma un soggetto collettivo e autonomo, governato non solo da cittadini eletti dai pari, ma soggetto all’influenza dell’opinione libera di ciascuno.
Piazze e mercati
Per questo nelle città nascono le piazze, e nascono innanzitutto davanti ai palazzi di città, i municipi. Per consentire assemblee plurali e partecipate. Perché i governanti fossero posti nelle condizioni di ascoltare i loro concittadini. E poi nascono le piazze dei mercati, perché l’attività economica non doveva condizionare, neanche fisicamente, quella politica, ma, nondimeno, rappresentava la linfa vitale di quelle comunità che crescevano e prosperavano. E dopo le piazze dei mercati iniziarono, solo dal Quattrocento, ad essere costruite le piazze davanti alle chiese a ai monasteri, perché la vita sociale ed economica aveva bisogno di una guida spirituale e morale. E poi strade e vie “tematizzate”, a ricordare funzioni e personaggi, arterie nevralgiche di un corpo ormai pienamente formato e ben funzionante.
Contraddizioni della contemporaneità
Oggi le nostre città, pur conservando i tratti originari del loro passato, sono diventate altro. Schiacciate, spesso, da contraddizioni inestricabili. Ne individua, lucidamente, le principali, Marco Romano nel suo libro Ascesa e declino della città europea (Cortina, 2013). Le città nascono per essere macchine al servizio dell’utile, ma governate secondo il criterio del bello, utilitas et decus. Macchine a servizio dell’efficienza dei mercati, della velocità dei commerci, all’efficacia degli affari, ma al contempo governate con un occhio al bene comune, alla qualità della vita e alla bellezza condivisa. Cosa rimane oggi di questo conflitto che ha generato, per secoli, benessere e tradizione?
C’è poi il tema del rapporto tra la città e lo Stato, del governo multilivello. Come coordinare interessi specifici e locali con quelli più generali e globali. Un tema che oggi – si pensi ai conflitti tra governo e regioni nella gestione della pandemia – diventa quanto mai cruciale nella protezione degli interessi dei cittadini. Ma siccome la città, nel momento in cui include e definisce identità, al tempo stesso differenzia ed esclude, non si può non porre l’ulteriore contraddizione che scaturisce dal rapporto con gli “altri”, i non cittadini.
Luogo di uguaglianza e di segregazione
sono le caratteristiche del processo di cooptazione attraverso il quale chi non lo era, ad un certo punto, diventa cittadino a tutti gli effetti? Un’ulteriore contraddizione emerge, poi, nel momento in cui riflettiamo sulla natura originariamente egualitaria della civitas, democratica ed orizzontale, e la struttura differenziata e gerarchica della sua manifestazione concreta nell’urbs. La città diventa, al contempo, luogo di uguaglianza e redistribuzione come di segregazione e sopraffazione. Come ha mostrato l’epidemiologo Giuseppe Costa, nel caso della città di Torino «chi sale sul tram che attraversa la città dalla collina alto-borghese alla barriera operaia di Vallette vede salire dei passeggeri che perdono progressivamente mezzo anno di speranza di vita per ogni chilometro che percorre il tram: più di quattro anni di aspettativa di vita separano i benestanti della collina da chi abita negli isolati più poveri del quartiere Vallette».
ll rapporto con la campagna
Ma forse la contraddizione più sorprendente che ha sviluppato la civiltà cittadina in Europa, nel corso degli ultimi mille anni, riguarda il rapporto con il territorio circostante. Essere cittadini per secoli ha voluto dire avere una casa dentro le mura e cercare quanto più frequentemente possibile di vivere al di fuori, in campagna, nelle “seconde case”. Forse non è un caso, a questo riguardo, che nel rappresentare pittoricamente l’allegoria del buon governo, all’inizio del ‘300, Ambrogio Lorenzetti si sia concentrato equamente sugli effetti che questo può avere sia nella città che nella campagna.
I dati storici ci dicono, per esempio, che a Firenze, a metà del ‘200, due terzi dei cittadini possedeva una terra nel contado. Nello stesso periodo, ad Orvieto, l’85% dei proprietari terrieri del contado era costituito da cittadini di condizione media o medio-bassa. Sappiamo che nel secolo successivo, in città come Genova, Firenze e Perugia, praticamente tutti i possessori di una casa in città avevano anche una casa nelle campagne circostanti. Tolosa, Bordeaux e Milano si trovano in situazioni analoghe. Vivere in città e godere, quanto più è possibile, dei benefici della campagna, sembrava essere lo stile di vita preferito dei primi cittadini moderni. Una massima che vale per il «sartore, il barbiere, il ferraio e il rigattiere», così come per i re; lo stanno a dimostrare, tra le altre, le residenze di Versailles, Caserta, Stupinigi e Schönbrunn.
Quali sono i conti che oggi le città fanno con i loro territori circostanti? Tendono ad invaderli e a snaturali, a inglobarli e ad asservirli, privandoli, in questo modo, della loro vocazione naturale, vecchia di secoli, di luogo complementare alla vita cittadina, luogo di ristoro ed equilibrio.
Ulrich Beck definiva «catastrofismo emancipatorio» la possibilità che da una tragedia derivassero conseguenze positive. Similmente Giovanni Lanzara indicava con la formula di «capacità negativa», quell’energia che interrompe processi consolidati per attivarne di nuovi, che si sprigiona specialmente in occasione di eventi traumatici come un terremoto, una crisi politica o ambientale e, forse, anche nel caso di una pandemia.
Detto in altri termini, forse questo tempo di crisi ci chiama ad un ripensamento profondo di molte delle dimensioni fondamentali dei nostri modi di vita, dei luoghi e delle loro funzioni e finalità. Forse è l’occasione anche per ripensare le nostre città nelle loro relazioni con le contraddizioni che in questi secoli ne hanno caratterizzato la storia. In particolare, il rapporto tra città e non-città, l’ineluttabile processo di inurbamento, la forza centripeta che ha spinto crescenti masse verso luoghi, al contempo, di opportunità e di insicurezza e malessere.
La pandemia e il lavoro agile
Un tassello fondamentale di questo discorso può essere riferito ai cambiamenti nelle modalità di lavoro che oggi ci si presentano. La pandemia ci ha costretti a contemplare tra le opzioni possibili forme di lavoro a distanza che precedentemente costituivano poco più che ipotesi di scuola. Il lavoro agile non è certamente ciò che molti hanno sperimentato durante i mesi di lockdown. In quei mesi, infatti, non solo si lavorava da remoto, ma lo si faceva con le scuole chiuse e i figli a casa, con i la mobilità ridotta dai trasporti bloccati, con l’impreparazione associata ad una scelta repentina ed obbligata. Il lavoro agile è molto di più. Come abbiamo cercato di argomentare in altre occasioni, si tratta di ripensare le modalità organizzative nei termini di una nuova autonomia, di una nuova socialità e di un rinnovato rapporto tra datore di lavoro e lavoratori. Questo ripensamento crea spazio per grandi innovazioni e miglioramenti in termini di benessere dei lavoratori e, quindi, di produttività per le organizzazioni, pubbliche e private.
Ma, di più, il ridisegno di tali logiche occupazionali potrebbe avere ricadute fondamentali anche sulla vita delle città e sul rapporto delle stesse con le non-città. L’Italia, soprattutto, è luogo di borghi diffusi, di piccole realtà ricche di storia, identità, legami e radici. Spesso la ricerca di un lavoro strappa i figli di queste realtà dalle loro origini e crea, assieme all’opportunità lavorativa, costi sociali legati allo spopolamento delle aree rurali interne e dei piccoli borghi. Un forte investimento nelle precondizioni che facilitano l’opzione del lavoro agile potrebbe aiutare a invertire questa tendenza. Quanti giovani sono costretti a trasferirsi in città superaffollate, con la prospettiva di un lavoro, ma a costo di uno sradicamento sociale e psicologico non certo privo di costi, per chi si trasferisce e per chi si lascia.
Una nuova questione urbana
La possibilità di lavorare a distanza, da casa o da hub decentralizzati, consentirebbe di riequilibrare un rapporto patologico tra la forza attraente della città e l’aspirazione ad una vita radicata nelle relazioni e nella storia che spesso solo i borghi e i luoghi d’origine possono soddisfare. Dovremmo iniziare a porre al centro del dibattito una “nuova questione urbana” che ha conseguenze profonde sia riguardo alla “giustizia spaziale”, le opportunità e la qualità della vita associata ai luoghi di residenza, sia alla qualità della nostra vita individuale e relazionale. Vale ancora la pena di assecondare un modello di città fatto di downtown nei quali si ammassano lavoratori dentro a grattacieli edificati in ossequio a forme di machismo urbanistico che, non di rado, sfociano in un patologico priapismo architettonico. Le città, è vero, sono diventate quello che sono perché hanno consentito di sfruttare i grandi vantaggi derivanti dalle esternalità di rete e di agglomerazione, ma in un tempo nel quale gran parte del valore economico è valore immateriale, la prossimità fisica perde quel ruolo centrale che ha giocato nei secoli scorsi.
Si tratta di liberare il lavoro dalla sua gabbia fisica e di creare nuove opportunità, per persone e luoghi. L’Italia ha una ricchezza diffusa fatta di luoghi bellissimi, ricchi di storia, tradizioni, relazioni. L’opportunità di consentire a tanti lavoratori la riconquista di tali spazi rappresenta una opportunità unica per dare nuova vitalità a questi luoghi e, al contempo, garantire una qualità di vita migliore a moltissimi che desidererebbero rimpadronirsi dei loro spazi vitali, oggi per loro e, nel futuro, per i loro figli.
Solo spezzare le catene del pendolarismo avrebbe, come ci dicono gli studi di Kahneman, un effetto decisivo sul miglioramento della qualità della vita di milioni di persone; senza parlare degli effetti benefici sull’ambiente derivanti da una decongestione dei centri cittadini; minori spostamenti, più tempo liberato e una migliore distribuzione del carico antropico sul territorio. Si tratta di spingere le organizzazioni pubbliche e private verso forme e strutture più moderne e sostenibili; ne guadagnerebbero in impegno, coinvolgimento e produttività. Saremo abbastanza visionari e lungimiranti da muoverci subito, adesso?
di Vittorio Pelligra (da ilsole24ore.com)