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Ricordi della “poeta” Maria Lanese di Rosario (Argentina), originaria di Ripalimosani
di Maria Lanese
25 novembre 2020
Elena Paglia nacque in Italia nel 1925; arrivò in Argentina insieme a me, sua figlioletta di quasi quattro anni, nel 1949. Da Rosario l’aveva “chiamata” suo marito, Beniamino Lanese, arrivato un anno prima.
Lì ci aspettavano mio padre, una città, una famiglia – quella del mio nonno paterno – e una lingua nuova e sconosciuta.
Venivamo da un paese di case di pietra, di gradinate che continuano ad apparire nei miei sogni, che rimassero in me, lungo le mie gambe infantili, come scale infinite, e un campanile, quello della chiesa di Santa Maria, il più bello dei dintorni, il faro della sua gente.
Il nome del nostro paese, Ripalimosani, poca gente riesce a pronunciarlo senza impappinarsi; per gli argentini è un vero scioglilingua, forse l’effetto de qualche scongiuro di mia madre per l’impressione che causò in lei quel primo contatto con una lingua nuova.
Elena è stata sempre curiosa, molto curiosa! Questo tratto è essenziale quando devi confrontarti con lo sconosciuto, rinforza la fiducia in te stesso.
Per questo, in brevissimo tempo parlava così bene il castigliano che non sembra straniera, dicevano alcuni clienti del nostro panificio, o “È arrivata da piccola?”, chiedevano altri.
Mia madre ci tiene, oggi ancor di più, molto di più, a quel rituale locale della “sobremesa”, cioè, quel restare a tavola dopo pranzo, a lungo; insiste nelle sue visite, nei nostri incontri, nel condividere con maestria il filo dei suoi ricordi, invariabilmente gli stessi, come se fossimo bambini bisognosi di ascoltare mille volte la stessa storia.
Un ricordo in particolare le fa socchiudere gli occhi e stringere le mani sul petto, come se facendolo una segreta preghiera le portasse sollievo.
“Quando scendemmo della nave, al porto di Buenos Aires, ebbi una paura tremenda, una angoscia che mi strinse forte, qui, nella gola; sentii improvvisamente un sacco di persone intorno a me che discorrevano in una lingua che io – pensai – non avrei mai potuto imparare, mai, mai, mai!”
Gran parte della sua giovinezza, come quella dei tanti emigrati dalla Ripa, trascorse tra sacchi di farina, sgobbate, stanchezza… Tutti quanti a lavorare giorno dopo giorno, tutti i giorni, ripagati, di tanto in tanto, con una di quelle rumorose, affollate, feste famigliari.
Elena, in particolare, la trascorse scrivendo lettere per i tanti parenti ormai istallati a Rosario, che venivano a chiedere una mano. Lei scriveva come nessuno in quelle due lingue.
Erano i tempi della “correspondencia a vapor”, le lettere andavano e venivano in nave, nessuno poteva fare previsioni su quello che portavano con sé.
Nel quinto anno del nuovo secolo, sul filo dei suoi 80 anni, Elena ci comunica, con un tono superbo davanti alla nostra sorpresa e al nostro stupore: ” Mi sono comperata un Nobuc”.
I nipoti e i bisnipoti esplosero in uno strepito di urla e di applausi.
Nessuno sapeva, in quel momento, che da diversi anni la sua curiosità l’aveva portata a curiosare tra i computer della casa; a domandare, inquieta; a provare e ad imparare quella nuova meraviglia.
Un po’ al mattino, un po’ al pomeriggio, eccola lì, Elena, col suo Notebook, aperta al mondo.
Naná, che è il nomignolo con cui le piace essere chiamata, chatta con gli amici e le amiche dei nipoti, così come col suo paese lontano, le pronipote dell’altra parte dell’oceano, perché i suoi coetanei non si allontanarono mai dal paese, e mantengono, come tutti da quelle parti, l’ostinazione di conservare intatto in ogni gesto il legame con quelli che vissero prima di loro, come se questo bastasse a fermare il tempo, come se il tempo che gli abita non fosse il tempo della carne, ma quello dei sassi, il tempo delle ossa.
Legge, quotidianamente, le notizie dell’Italia, visita il suo paesino, ora così vicino, tutte le volte che il suo cuore glielo richiede. Non sarebbe strano se ascoltasse anche il canto della fontana Irma, dove, andando a prendere dell’acqua con la sua giara, s’innamorò di Beniamino, nostro padre, per sempre.
Tutta la mia infanzia è stata segnata da un enigma resistente alla mia logica infantile.
Ancora oggi non trovo sufficienti le ragioni che attraverso il tempo accorsero alla ricerca di qualche risposta soddisfacente: perché non ci sono delle fotografie del matrimonio dei miei genitori?
“E… c’era la guerra… non avevamo nulla…”, dice lei, con calma e rassegnazione, come se questa rinuncia, per me inconcepibile, fosse per lei la redenzione delle tremende tragedie famigliari il cui racconto ansioso, appassionato, riprende fatalmente ogni volta che do spazio con la mia insistenza a quelle acqueforti, che con diligenza e la cura di un dolore
immutabile, tornano alla sua memoria.
A volte, i suoi occhi socchiusi, come quelli di Bette Davis, improvvisamente la illuminano di un bagliore inatteso. Sono secondi in cui tutti, come richiamati all’unisono, la guardiamo in silenzio, fino a quando riprende l’espressione alla quale siamo abituati, un viso solitamente teso, con lo sguardo allerta, come quello degli uccelli quando hanno paura.
Non ho mai il coraggio di chiederle cose succede in quell’istante privilegiato, ho sempre paura di rompere un incantesimo, di violare una stanza segreta, e ho sempre pensato che, in questi casi, chi osa oltrepassare i limiti è destinato a perdersi lo splendore custodito da quelle serrature con tanto impegno.
Non mi perdonerei mai se la mia curiosità arrivasse a spegnere quel luccichio, a violare le armonie, a smorzare l’eco di ogni sasso, a deviare i passi della gente in quel paese posseduto dalla musica delle campane nel giorno delle sue nozze, che al riparo delle sue palpebre tornano a risuonare nella sua anima.
María Lanese – Rosario – Repubblica Argentina
(Trad. di Milton Fernández)
di Maria Lanese