Covid rilancia la moda dei borghi
L’architetto Antonio De Rossi all’Huffpost: “Senza progetti sarà un fuoco fatuo”
di Adalgisa Marrocco (da huffingtonpost.it)
23 dicembre 2020
Leggete con attenzione questa intervista ad Antonio De Rossi, uno dei maggiori studiosi delle Alpi, delle montagne italiane, del fenomeno dello spopolamento e della possibile rigenerazione dei luoghi, dei piccoli borghi, delle periferie urbane. Sono argomenti e questioni a cui De Rossi ha dedicato una vita di studi e di ricerche, con uno sguardo profondo e pluridisciplinare, tra geografia, urbanistica, antropologia, pianificazione, sempre attento al punto di vista dei locali e con una progettualità civile e politica di grande respiro. Condivido e faccio mie, ne ho anche parlato in qualche mio scritto, la sua preoccupazione che questo “ritorno ai borghi” possa essere un’ennesima occasione sprecata se a gestirla sono intellettuali modaioli e retori, esteti delle rovine. La moda del ritorno ai borghi, che conosce una nuova fortuna dopo il Covd-19 (ci sono sempre le élite che prosperano sulle catastrofi), vedi indaffarati i portatori di nuove forme di modernismo e di urbanocentrismo, o figure mediatiche e “alla moda” che, con una prospettiva neoromantica e strumentale, senza alcuna progettualità che si ponga il problema di come rigenerare e riabitare i luoghi, cerca di intercettare finanziamenti per “deturpare” e “devastare”, in maniera perversa, borghi, centri, luoghi ricchi di storia, di memorie e di umanità da cui si si sono tenuti, con atteggiamento aristocratico ed elitario, sempre lontani. Antonio De Rossi, molti altri studiosi, come quelli che hanno fondato l’associazione “Riabitare l’Italia”, indicano un’altra strada, più complicata, ma vera, dalla parte dei luoghi e della gente che li abita. (Vito Teti – fb)
“Serve una nuova alleanza tra città e montagne, tra aree metropolitane e interne, andando oltre le dicotomie e le contrapposizioni che da un secolo guidano le politiche nazionali”. Ne è convinto Antonio De Rossi, architetto e docente presso il Politecnico di Torino dove dirige l’Istituto di Architettura Montana (IAM).
All’HuffPost De Rossi, curatore del saggio Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018), parla del ritorno alle aree interne e montane dell’Italia, della battaglia allo spopolamento, della territorializzazione delle politiche e dell’importanza di progetti di rigenerazione che combinino conservazione e innovazione. Temi che erano oggetto di dibattito già prima della pandemia, che ha stravolto le nostre vite e portato molti, anche grazie alla possibilità dello smartworking, a considerare un trasferimento dalle città ai borghi. Ma a che punto siamo? Il Paese è davvero pronto a una svolta?
Per l’architetto – che in questi giorni sarà tra i protagonisti dell’edizione 2020 del festival dedicato all’antropologia del paesaggio che si trasforma e al rapporto tra uomo e ambiente Sette Giorni per Paesaggi – senza “un equo riconoscimento di potenzialità e limiti, di autorità e specificità, la recente proiezione su borghi e paesi, su montagne e aree interne, resterà una profilo ritagliato nel cartone e privo di spessore”.
L’Italia è ricca di aree marginali: valli, zone montane e dorsali appenniniche che occupano più dei due terzi del territorio e dove si concentra quasi un quarto della popolazione. Si tratta di zone che in passato sono state spesso dimenticate dalle politiche di sviluppo e non al centro delle dinamiche nazionali. In questi anni è cambiato qualcosa?
Dipende dalle lenti che utilizziamo e dalla distanza da cui osserviamo. Se osserviamo le aree interne e le montagne italiane da lontano, a grandi masse, l’impressione è certamente quella di un processo di infragilimento e marginalizzazione che continua, anche se in maniera assai diversa dalla fase dell’abbandono e della fuga verso le città compresa tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. Indubbiamente i processi di spopolamento e invecchiamento delle popolazioni locali persistono, accompagnati negli ultimi anni da una forte accelerazione nel venire meno dei servizi di welfare, sanitari e scolastici, a causa di un presunto principio di razionalità fondato sulle “soglie minime” che prevale ed è frutto di un’idea di sviluppo incentrata sulle aree metropolitane e sulla quantità.
E se avviciniamo lo sguardo?
In quel caso, ponendoci su un piano medio, ci accorgiamo però il processo si articola in situazioni differenti: nelle vallate alpine, per fare un esempio, sono in corso oramai da tempo, a macchia di leopardo, percorsi di reinsediamento. Si tratta di quello che è stato definito fenomeno dei “nuovi montanari”, i cui protagonisti sono sovente giovani ad alto livello di scolarizzazione, con figli, portatori di puntuali progetti imprenditoriali che sanno trasformarsi in progetti di sviluppo locale dal valore comunitario e collettivo. Sul versante opposto, invece, ci sono territori come le aree interne della Sardegna dove le proiezioni demografiche mostrano il rischio di un totale spopolamento e desertificazione del territorio nel giro di pochi decenni. Infine, se passiamo da una visione zenitale a una prospettica, ci accorgiamo che accanto ai consueti processi di infragilimento l’Italia delle aree interne è attraversata da centinaia di esperienze di rigenerazione e rivitalizzazione, spesso nate spontaneamente e dal basso. È difficile rendersi conto “da fuori” della quantità di percorsi di riattivazione in atto nel nostro paese: vanno “attraversate”, incontrate “corporalmente”.
Lei questo incontro lo ha vissuto. Cosa ha scoperto?
Negli ultimi due anni io e l’architetta Laura Mascino, mia compagna, siamo stati chiamati più volte in queste realtà a presentare il libro Riabitare l’Italia, che è diventato un po’ uno dei punti di riferimento del dibattito nazionale sulle aree interne. Abbiamo incontrato decine e decine di esperienze in cui la valorizzazione delle risorse locali si intreccia con i temi dell’innovazione sociale a base culturale, della riorganizzazione del welfare, della nuova agricoltura, di creazione di economie inedite che amiamo definire tecnorurali. Certo, si tratta di sperimentazioni fragili quanto i territori su cui insistono, ma che sono attraversate da forme di innovazione oggi difficilmente ritrovabili negli spazi urbani, in grado di dare vita a una sorta di atlante quasi infinito. Si va da realtà oramai consolidate e note a livello internazionale come Farm Cultural Park a Favara in Sicilia, passando per esperienze come Dolomiti Contemporanee che utilizzano l’arte come leva di riattivazione, fino alle Cooperative di comunità che dagli Appennini emiliani si stanno diffondendo in tutta la penisola. O ancora, ci sono piccoli paesi come Ostana nelle vallate occitane del Piemonte che, dopo avere rischiato la scomparsa alla fine del secolo scorso, è stato riabitato da una nuova comunità di giovani che stanno costruendo un’originale economia che si basa su agricoltura, recupero innovativo del patrimonio architettonico, cultura e turismo sostenibile. I tre differenti sguardi – da lontano, dal piano medio, dalla visione ravvicinata – devono essere sempre considerati compresenti nella loro complessità, altrimenti si rischiano gravi errori di analisi e interpretazione, che potrebbero ripercuotersi pesantemente sull’attuale e futura progettualità per le aree interne del paese. Sembrano tra loro contradditori, ma non lo sono.
Il dibattito sul ritorno alle aree interne e montane dell’Italia, come la battaglia allo spopolamento, era già in corso prima della pandemia, che ha stravolto le nostre vite e portato molti, anche per via dello smartworking, a considerare un trasferimento dalle aree urbane ai borghi. A che punto siamo?
I mesi della pandemia, con la loro accelerazione, rappresentano un momento importante ma allo stesso tempo molto delicato. Siamo in presenza di una sorta di doppio movimento che paradossalmente rischia, proprio nel momento in cui nel dibattito pubblico sembra imporsi il tema delle aree marginalizzate e dei borghi, di essere dannoso per le aree interne. Da un lato, questa nuova attenzione e sensibilità per questi territori viene da lontano. Una sorta di fiume carsico che sembra emergere di colpo durante l’emergenza sanitarie. È un fiume costituito da diversi affluenti: le tantissime esperienze di rigenerazione in atto da anni di cui parlavo precedentemente, le politiche e le pratiche della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) ideata dall’ex ministro Fabrizio Barca nel 2013, gli studi e le proposte progettuali di matrice universitaria, il lavoro pluriennale di organizzazioni come l’Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani (UNCEM). Ma soprattutto, mi viene da dire, è presente una progressiva e radicale metamorfosi culturale, che porta a guardare in modo inedito le aree montane e marginalizzate del Paese.
Ci spieghi.
Si tratta di una metamorfosi che trova le sue ragioni nella crisi ambientale e climatica, nel venire meno dei modelli di sviluppo tradizionali, nel deteriorarsi del ruolo propulsivo delle grandi città. Di fronte a tutto questo, per la prima volta dalla nascita dello Stato unitario, le aree interne vengono viste come uno spazio di opportunità e di libertà, non più necessariamente come un mero sfondo paesaggistico – intriso di presunte valenze morali e tradizionali – delle metropoli. Oggi molti giovani vedono nelle aree montane e interne non un problema, ma un luogo centrale e privilegiato dove sviluppare progetti di vita, di imprenditorialità e di economia in linea con l’ambiente e con una certa idea di società. Uno spazio di contemporaneità. Non è un mutamento di immaginari di scarso rilievo. Inoltre, prima la Strategia Nazionale per le Aree Interne e poi l’emergenza pandemica, hanno portato le tante persone che lavoravano verticalmente sui propri territori a conoscersi e a unirsi. Oggi non esistono più le Alpi, gli Appennini e via discorrendo: esiste una questione nazionale, che prende il nome di ‘montagne’ e ‘aree interne’.
E i borghi?
La ‘moda’ dei borghi e dei paesini è esplosa in particolare durante la crisi sanitaria. Non è qualcosa di completamente slegato dall’altro versante, ma ne rappresenta la declinazione folcloristica e strapaesana, insita in un immaginario urbanocentrico di lunga data, le cui origini potrebbero essere rintracciate nel Settecento e in Rousseau. Dopo decenni di centralità dell’urbano, abbiamo sentito improvvisamente intellettuali e figure molto note parlare attraverso i media della necessità di ‘adottare’ i paesini, come se si trattasse di gusci vuoti, privi di spessore e realtà storica, di desideri e progettualità proprie. La rivista Millionaire ha dedicato il titolo del numero di dicembre a La rinascita dei borghi. Certo, questa inedita attenzione è importante nell’ambito del dibattito pubblico. Ma c’è il rischio concreto che si configuri come un fuoco fatuo capace di bruciare il tema, oltre che di mettere in secondo piano le reali esperienze rigenerative in atto sui territori, le ricerche, le politiche della Strategia Nazionale per le Aree Interne.
Le persone abituate alla vita di città avrebbero difficoltà nell’adattarsi alla realtà e agli spazi di un borgo o di un’area periferica?
Ho parlato con diverse persone che si sono temporaneamente trasferite nelle vallate piemontesi, in molti casi nelle loro secondo case. Alcuni di loro hanno iscritto i figli nelle scuole del paese per quest’anno scolastico. Tutti i loro racconti hanno tratti simili: bellissimo vivere in un contesto ambientale e paesaggistico come quello della montagna, ma quando finisce la giornata di smartworking tutti dicono ‘adesso dove andiamo?’. Certo, si possono fare straordinarie passeggiate, ma mancano i negozi e i servizi di base, i luoghi della socialità. E poi la connessione al web è spesso limitata. Parliamo di persone che hanno già una certa familiarità con lo spazio montano. Tutto questo ci fa capire che non basta dire ‘contrordine, domani tutti nei borghi!’. Sarebbe superficiale per tante ragioni, che vanno dalle trasformazioni culturali e tecnologiche fino al cambiamento climatico. È chiaro che nei prossimi anni assisteremo a una progressiva risalita di parti della popolazione verso le aree montane e interne: ce lo dicono le proiezioni demografiche e climatiche: il combinato disposto di innalzamento delle temperature e umidità e invecchiamento degli abitanti obbligheranno diverse decine di migliaia di persone a trasferirsi in spazi in altitudine per alcuni mesi all’anno. Ma tutto questo non può essere improvvisato. Servono scenari e progetti per il futuro.
Ovvero?
Negli ultimi 25 anni, non sono mancati i finanziamenti destinati ai territori, ma spesso sono stati dedicati alla valorizzazione dei patrimoni tradizionali e storici, ai ‘beni-faro’, al turismo. Si tratta di quello che io definisco paradigma della patrimonializzazione, molto dipendente da una visione urbanocentrica di questi spazi. Quello che invece serve è un vero progetto di (ri)costruzione dell’abitabilità. Basta vedere queste zone solo in ottica di consumo e protezione, che sono facce della stessa medaglia. I territori, per essere abitabili, devono essere messi nella condizione di produrre: economie, nuove forme di socialità e nuove culture. Le politiche, insieme alle trasformazioni culturali, hanno valore decisivo: non si tratta di territori marginali per destino, ma che sono stati marginalizzati da precise policies che hanno messo al centro i territori metropolitani.
Quali misure dovrebbero essere adottate?
Innanzitutto bisognerebbe ricreare i diritti di cittadinanza che sono al centro delle azioni della Strategia Nazionale per le Aree Interne: diritto ai servizi sociosanitari, diritto alla formazione, diritto alla mobilità e accessibilità, che contiene in sé anche la questione urgente del divario digitale, esplosa in particolare durante la crisi pandemica. Da mesi il ministro Provenzano sottolinea con forza quanto la SNAI debba essere potenziata, trasformandosi da sperimentazione a politica ordinaria per le aree interne. Questi sono i temi prioritari. E poi ci ulteriori questioni, altrettanto decisive. Come il potenziamento delle macchine amministrative, condizione base per fare ripartire progettualità a livello locale e raccogliere i finanziamenti europei. E ancora le normative e le forme di fiscalità ‘a misura di luogo’: oggi la stessa norma vale per il centro di Milano come per il paese di poche decine di abitanti in alta quota. La risoluzione della questione fondiaria e della sua frammentazione, che ritorna ciclicamente da più di un secolo; bisogna rendere finalmente disponibili i terreni abbandonati ai nuovi abitanti. Bisognerebbe poi prestare maggiore attenzione alla tecnologia e a forme di trasferimento tecnologico appropriato, con la creazione di centri di competenza incentrati sulla valorizzazione delle risorse montane e delle aree interne. Pensiamo banalmente al tema delle foreste, che oggi coprono quasi il 30% del territorio nazionale e sono scarsamente gestite, dando vita a gravi fenomeni idrogeologici, mentre potrebbero essere motore di abitabilità e sviluppo locale, come avviene in Austria e Svizzera.
Sopra ogni cosa, serve una nuova alleanza tra città e montagne, tra aree metropolitane e interne, andando oltre le dicotomie e le contrapposizioni che da un secolo guidano le politiche nazionali. Ecco il nodo. Un equo riconoscimento di potenzialità e limiti, di autorità e specificità. In mancanza di tutto questo, la recente proiezione su borghi e paesi, su montagne e aree interne, resterà una sagoma ritagliata nel cartone e priva di spessore.
di Adalgisa Marrocco (da huffingtonpost.it)