• 8 Febbraio 2021

Il pensiero dei territorialisti

Ci sono diverse ragioni che rendono davvero prezioso il nuovo corposo lavoro – Il principio territoriale (Bollati Boringhieri) – di Alberto Magnaghi, docente emerito di Urbanistica all’Università di Firenze

di Paolo Cacciari (da comune-info.net)

8 febbraio 2021

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Se c’era una vittima predestinata dell’ubriacatura neoliberista, questa è stata certamente l’urbanistica, disciplina regina della pianificazione dello sviluppo, assieme alla programmazione industriale. La debordante dilatazione dei flussi produttivi e di consumo nell’era del turbocapitalismo globale, dagli anni Ottanta del secolo scorso, non ammette regole, vincoli, limiti. Gli esiti “al suolo” sono stati, da un lato, una “megaurbanizzazione dei paesi emergenti”, una concentrazione degli abitanti della Terra in slum, favela, bidonville attorno a una ventina di megalopoli di più di venti milioni di abitanti, dall’altro lato il “megaesodo planetario” dalle zone rurali, marginalizzate, degradate.

Anche in Europa il processo di urbanizzazione di “estensione illimitata delle città” (Alberto Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 323) ha raggiunto livelli massimi: in Belgio il 97 per cento della popolazione vive in città, in Francia l’85 per cento, in Germania il 74 per cento, più o meno come in Italia.

La scuola di pensiero dei territorialisti nasce negli anni Novanta – prevalentemente in Italia, in Gran Bretagna e in Francia – dalle ceneri dell’urbanistica tradizionale dei piani regolatori comunali (troppo spesso “contrattati” con gli immobiliaristi), della “zonizzazione” (disegnata seguendo le isoipse della rendita fondiaria), degli standard minimi di servizi stravolti dal cemento-asfalto. Un grande geografo, Eugenio Turri, così descriveva, ad esempio, la megaregione padana:

“Dallo spazio, dalla quota dei satelliti, ciò che risalta è anzitutto una macchia che sembra simile a un fenomeno canceroso, ad una escrescenza, una muffa, ciò che fa pensare alla antropizzazione come a qualche cosa di innaturale, ad una degradazione della biosfera” (La megalopoli padana, 2000).

Ci sono due modi per entrare nello spirito del “principio eco-territoriale” e leggere il nuovo corposo lavoro di Alberto Magnaghi, docente emerito di Urbanistica all’Università di Firenze: adoperarsi per apprendere la teoria di una nuova disciplina delle scienze della Terra, che studia le complesse interazioni transdisciplinari tra fattori antropici e naturali, storici e biologici, spaziali ed economici, sociali e politici, oppure ammirare direttamente una delle “mappe di comunità” e di frazione che sono gli strumenti di base della elaborazione dei piani territoriali con valenza paesaggistica redatti in Puglia, Toscana e in altre aree intercomunali dai gruppi di urbanisti che fanno riferimento alla Società dei territorialisti, di cui Magnaghi è fondatore e presidente. Non anonime carte topografiche standardizzate, bidimensionali, retinate con simboli stereotipati, come quelle che siamo abituati a vedere negli uffici edilizi comunali quando andiamo a fare una pratica edilizia, ma collage variopinti che raccolgono le impressioni “percepite” dagli abitanti dei luoghi riuniti e intervistati dagli urbanisti-facilitatori di processi partecipativi. Così che i “valori patrimoniali” persistenti dei territori emergono

“dall’intreccio di parametri soggettivi: percorsi e luoghi familiari e della memoria, luoghi simbolici e del sacro, conoscenza profonda della peculiarità della fauna e della flora, circuiti lavorativi e uso delle risorse tra campagna e paese, luoghi dell’incontro, delle festività, delle cerimonie, delle attività ludiche e così via” (p. 116).

L’attività pianificatoria, nella filosofia territorialista, appare quasi strumentale al fine di innescare un processo vitale di presa di coscienza del “valore d’esistenza” intrinseco e persistenti dei luoghi da parte delle comunità insediate, nella speranza che cresca anche il loro desiderio di diventare “soggetti attivi” capaci di “prendersi cura” collettivamente del territorio inteso come “bene comune” (commoning). Ciò nelle convinzioni che senza una diffusa “coscienza di luogo”, una identificazione anche sentimentale degli abitanti con il loro spazio vitale, non ci potrà mai essere una vera “conversione ecologica” dei modi di produzione, distribuzione, sostentamento, riproduzione della vita. Nel processo di auto-pianificazione territoriale i “saperi esperti”, le conoscenze erudite specialistiche portate dalle varie discipline scientifiche e umanistiche, bio-geologiche e storiche-economiche-sociali si fondono con i “saperi contestuali”, esperenziali, popolari. Anche qui torna un ispiratore della scuola territorialista, Carlo Cattaneo: “Principio del ben fare è il ben conoscere”. Oltre a lui il quadro culturale generale a cui Magnaghi si riferisce è dichiarato fin dalle prime pagine: Ktopotkin, Bookchin, Gorz, Illich e molti altri, tra cui Adriano Olivetti e Giacomo Becattini, teorici dell’autogoverno comunitario federativo. Ciò gli è costata qualche dura accusa (da destra come da sinistra) di utopismo visionario, di sognare tante piccole Città del sole, micro-societas perfettamente autogovernate, dove regnerebbero armonia e giustizia sociale. Secondo costoro, fuori dal comando del Mercato e/o dello Stato (variamente combinati e bilanciati) non vi sarebbe alcuno spazio di manovra politica efficace. Al contrario, le numerosissime esperienze concrete di costruzione di sistemi di relazioni economie autogestite con valenze etico-sociale che Magnaghi descrive con minuzia nel libro, testimoniano l’esistenza di una potenziale “nuova civilizzazione” – di grandezza pari a quella di cui vi fu bisogno dopo la grande crisi del ’29 – per rigenerare meccanismi coevolutivi equilibrati e sinergici tra gli insediamenti umani e le dinamiche dei cicli vitali naturali. La “riterritorializzazione” delle economie locali sembra essere quindi la risposta necessaria, unica possibile alla drammatica crisi ecologica globale e preservare “la salvezza dell’ambiente dell’uomo”. Autosviluppo locale, filiere corte, chiusura dei cicli di approvvigionamento alimentare, sistemi solidali di piccola distribuzione organizzata, artigianato, comunità energetiche, welfare mutualistico di prossimità, riutilizzazione degli spazi pubblici e molto altro, stanno a dimostrare che è possibile intrecciare dal basso un tessuto di relazioni sociali “fuori mercato” (postcapitaliste). Ha scritto recentemente Gustavo Esteva:

“Milioni di persone, in molti diversi contesti urbani e rurali, hanno cominciato a costruire innumerevoli modi di vivere, che rispettano nello stesso tempo natura e cultura. Si impegnano a livello di base nel loro spazio immediato, concreto, che è l’unico nel quale possiamo agire politicamente nel vero senso della parola. Ma li anima uno spirito localista. Contemporaneamente si pongono in relazione con altre e altri che in molti luoghi agiscono in modo analogo.” (La fine di un ciclo, Comune-info.net, 6 gennaio 2021).

Magnaghi non crede all’“ottimismo tecnologico” profuso a piene mani dalle nuove rivoluzioni industriali a diversa intensità di green. Né al conservatorismo dall’alto, imposto da governi illuminati, che, peraltro, non si vedono all’orizzonte.

Nel primo caso le innovazioni cyber-tecnologiche sotto il comando (“eterodirezione”) dei grandi gruppi economici (affetti da “hybris di potenza”) conduce ad una progressiva artificializzazione, omologazione e soggiogamento della natura. La preoccupante avanzata della bio-geo-ingegneria dovrebbe metterci in guardia contro questi esiti.

Ma anche nella seconda ipotesi della preservazione naturalistica delle terre wildeness, Magnaghi vede una errata e impraticabile separazione fra natura e cultura, tra ambiente naturale e ambiente umanizzato. L’autore ricorda che:

“Il paesaggio che viviamo è l’esito della stratificazione di diverse configurazioni territoriali, materiali e immateriali, sovrapposte e integrate”.

Frutti della coevoluzione tra tempi biologici e tempi storici. L’intera crosta terrestre è stata ormai colonizzata e investita dalla presenza umana. Il nostro stesso corpo, del resto, è ricoperto di indumenti, protesi, gusci, strumenti esosomatici senza dei quali non saremo più capaci di sopravvivere. La soluzione, quindi – secondo Magnaghi – non sta nel considerare in modo separato l’ambiente naturale da quello dell’uomo. Insomma, è vero che ogni essere vivente è parte del tutto, dipende dallo stato di salute del megaorganismo vivente chiamato Gaia, ma è anche vero che nell’era dell’Antrpocene in cui siamo (segnata dalla potenza trasformativa degli esseri umani) il buon funzionamento dei cicli vitali naturali dipende dai comportamenti e dalle azioni della specie animale autodefinitasi homo sapiens. Cambiamento climatico, perdita di biodiversità e di fertilità del suolo, acidificazione e plastificazione degli oceani, inquinamento dell’aria e altre crisi ambientali ce lo dicono. Stiamo rendendo inabitabile la Terra (per la nostra specie, poi chissà chi verrà dopo di noi). Prendersi cura dell’ambiente che ci sta attorno – “ri-territorializzarlo” in modo responsabile e intelligente – è quindi il modo che abbiamo per “salvare” la natura al grado di complessità e di funzionalità fin qui raggiunto.

Il ragionamento ecoterritorialista è convincente e soprattutto motivante l’azione delle donne e degli uomini impegnati nei movimenti per la giustizia ambientale e sociale. Offre una cornice di senso unitaria, olistica, alla lotta per la trasformazione della economia e della politica. Ma a me pare sbagliata nel punto della critica ai movimenti ecologisti più radicali e “profondi”. La Deep ecology (vedi il Long-Range Ecology Movement di Arne Naess) ci ricorda come all’origine di tutto vi sia una cultura occidentale (giudaico e, in parte, ellenistica) antropocentrica e specista (oltre che androcentrica e patriarcale) che ha fatto dimenticare all’uomo (in questo caso mi riferisco propriamente al maschio, adulto, bianco e possidente) le sue origini naturali (dal ventre della terra e della donna) e le sue responsabilità. Una critica ingenerosa poiché sottrae frecce preziose dalla nostra faretra. Penso al veganesimo come atteggiamento etico empatico nei confronti degli animali non umani. Penso alle azioni di conservazione tramite rinaturalizzazione, rewilding (rinselvaticamento), dei terreni degradati, non ancora occupati, sottoutilizzati o mal utilizzati. Penso al progetto The Great Wall Initiative, la fantastica muraglia verde sub-sahariana che attraversa l’intera larghezza dell’Africa dal Senegal all’Etiopia per 8.000 chilometri, dall’Atlantico al Mar Rosso, per uno “spessore” di 15 chilometri. Il progetto è stato adottato dall’Unione africana nel 2007 allo scopo di fermare l’avanzata della desertificazione, rigenerare cento milioni di ettari e offrire una opportunità di lavoro a dieci milioni di persone oltre a contribuire alla lotta globale al riscaldamento climatico. (Vedi il “Quaderno” della Associazione Ecofilosofica n.56 dell’ottobre 2020). Penso alla campagna Half-earth, ispirata dal biologo e naturalista Edgar O.Wilson, che sostiene la necessità di destinare la metà della terra e del mare alla salvaguardia della biodiversità (attualmente il 75 per cento degli ambienti naturali terrestri e il 66 per cento degli ecosistemi marini sono stati trasformati e danneggiati dalle attività antropiche), più che mai attuale pensando proprio alle cause prime della esplosione delle pandemie zoonotiche.

“La distruzione e il danneggiamento degli ecosistemi naturali, con conseguente perdita di biodiversità (…) che possono manifestarsi in modifiche dei processi naturali, fino ai ‘salti di specie’ da parte di agenti eziologici” (IPBES, 2019, Global Assessment Report on Biodiversity and Exosystem Sercvice).

Ricordiamoci che le foreste (quelle esistenti e quelle che si riusciranno a impiantare) restano ad oggi la più importante e sicura tecnica disponibile per assorbire la CO2.

“Secondo la rivista ‘Nature’ riportare allo stato naturale il 15% delle terre su cui ci sono stati interventi umani servirebbe a evitare il 60% delle estinzioni previste e a catturare 299 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, equivalenti al 30% dell’aumento della CO2 nell’atmosfera dai tempi della rivoluzione industriale” (Internazionale, 4 dicembre, 2020).

Non si tratta di lasciare in uno stato di abbandono ampi territori, ma di innescare processi arricchenti la biodiversità (attraverso l’introduzione di specie vegetali e animali particolari). Difficile pensare ad un nuovo equilibrio armonico e dinamico su larga scala, “bioregionale” e planetaria, senza mettere in conto un arretramento drastico delle attività antropiche, una decrescita dei prelievi di materia e delle re-immissioni nell’ambiente naturale degli scarti, delle scorie, dei rifiuti non metabolizzabili (vedi tutte le tipologie di “inquinamento”, microplastiche comprese), quindi una diminuzione netta dell’impronta ecologica dell’umanità.

di Paolo Cacciari (da comune-info.net)

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