Meritocrazia e giustizia sociale
I poveri sono sempre più esclusi dalla redistribuzione della ricchezza nella società della meritocrazia
di Umberto Berardo
11 febbraio 2021
Nella storia dell’umanità e delle diverse comunità in cui essa si è organizzata la costruzione di una società solidaristica e di un’economia della condivisione ha avuto realizzazioni alquanto limitate rispetto a quelle in cui a prevalere è stata la concezione dell’affermazione individualistica ed egoistica della competizione.
Nonostante le tante elaborazioni di pensiero filosofico, politico e religioso che, a partire da Aristotele nel libro V della Politica, hanno tentato di dirigere il genere umano verso la giustizia sociale, si è fatta sempre più strada l’opinione che i beni della Terra non fossero appannaggio di tutti i suoi abitanti, ma patrimonio di quanti riuscivano ad impossessarsene con i mezzi più svariati quali un uso prolungato, un’occupazione, un’azione di conquista militare, un’invenzione di un sistema produttivo o redistributivo o quant’altro.
Nel tempo le forme strutturali e sovrastrutturali dei diversi settori economici hanno potenziato sempre più la fruizione ristretta dei beni per gruppi circoscritti di persone che nel nome dell’idea di “proprietà privata” si sono impadroniti della terra, degli strumenti di lavoro, dei sistemi commerciali e perfino dei propri simili riducendoli a servi o peggio ancora a schiavi.
Il militarismo, gli imperialismi, i sistemi feudali, le ideologie capitaliste e neoliberiste sono stati i metodi d’imposizione dell’idea di proprietà privata, della divisione della comunità in classi sociali e dell’attuale ripartizione dell’umanità in pochissimi ricchi e in una massa enorme di poveri esclusi da qualsiasi redistribuzione della ricchezza e vessati ancora con le logiche immorali di un’economia finanziaria che fonda i suoi profitti sul neocolonialismo commerciale dei beni e del denaro che opprime gli esclusi con il sistema del debito.
Ovviamente la difesa di un tale assetto sociale non poteva che essere affidata ad un’organizzazione politica oligarchica, elitaria e antidemocratica.
Molti intellettuali, ma anche tanti uomini giusti, hanno tentato di opporsi ad una tale configurazione di struttura collettiva cercando di elaborare idee e forme di vita in grado di eliminare le disuguaglianze e di riportare l’umanità alla giustizia sociale.
Il conflitto e le rivoluzioni non hanno permesso al pensiero solidaristico di affermarsi, ma al contrario le logiche del diritto all’arricchimento hanno prevalso e sono diventate sempre più selvagge e disumane.
E tuttavia il sistema plutocratico neoliberista aveva ancora necessità di giustificare in maniera manichea l’assetto sociale, economico e politico che stava rendendo sempre più discriminante la condizione della maggioranza.
Il sociologo britannico Michael Young nel volume “L’avvento della meritocrazia” del 1958 indicava in modo distopico per il futuro la “meritocrazia” quale elemento concettuale neoliberista per motivare la disuguaglianza economica e sociale sostenendo che all’inizio del ventunesimo secolo lo status di un individuo nella società sarebbe stato determinato dal merito costituito dal quoziente intellettuale, dalla cultura acquisita e dall’esperienza del saper fare.
L’oppressione generata da tale modo di pensare, secondo Young, avrebbe portato le masse ad una rivoluzione per rovesciare il potere economico e politico che generava tale assetto sociale.
Dunque al neologismo “meritocracy”, indicante il potere del merito, il sociologo inglese dava una connotazione negativa mentre nel corso degli anni il termine ha assunto un significato sempre più positivo tra i teorici dell’economia neoliberista che lo hanno posto al centro di una società in cui le cariche pubbliche e la gestione aziendale devono essere affidate ai più meritevoli premiando oltretutto chi si distingue per capacità e impegno.
Il Calvinismo in America ed il Laburismo in Inghilterra sono diventati i principali paladini di tale concezione che nel corso degli anni si è fatta strada pure in Italia penetrando anche tra gli esponenti della cosiddetta “sinistra” convinti che proprio la mancanza del merito nei posti chiave abbia prodotto classi dirigenti modeste e un declino sempre più accentuato dell’economia.
Così la meritocrazia, che nella concezione di Michael Young era nient’altro che una distopia, si è trasformata nell’ideologia fondante della logica neoliberista della competizione.
Secondo l’etica meritocratica occorre massimizzare il merito per avere ricchezza, successo e capacità produttiva; per questo tale principio dev’essere il fondamento non solo della politica e del sistema economico, ma soprattutto della scuola dove occorre superare il sapere astratto e lo spirito critico nella formazione dell’homo sapiens per promuovere utilitaristicamente in un homo oeconomicus il saper fare certificato abitualmente da una somministrazione di test attraverso i quali i meritevoli surclassano gli altri secondo parametri scelti in modo artificiale e assai discutibile.
Alla didattica della ricerca, della riflessione analitica e della creatività, che guida a comprendere criticamente la realtà e possibilmente a modificarla in ragione del bene comune, si sostituisce allora quella delle competenze e delle performance operative e pratiche che devono unicamente preparare ad adattare il proprio profilo attitudinale alla situazione di fatto.
Ora le capacità, le abilità, le conoscenze, le attitudini, la formazione possono sicuramente avere un grande valore per migliorare l’esistenza degli esseri viventi ed è lapalissiano che esse vadano sostenute per migliorare la qualità della vita.
Invocare il merito al servizio dell’efficienza culturale, sociale ed economica è lodevole, ma utilizzarlo per il prestigio personale e una valutazione monetaria, premiata magari all’inverosimile in alcuni settori e molto meno in altri, non lo è altrettanto.
Occorre in ogni caso riflettere sul fatto che il capitale umano non è costituito solo da elementi innati bensì è frutto dell’ambiente in cui si è inseriti, della classe sociale e del genere di appartenenza, delle possibilità formative, della disponibilità economica e ovviamente delle relazioni interpersonali e su tali componenti non sono garantite a tutti le pari opportunità come base di partenza comune.
L’altro problema di carattere generale, di cui poco per la verità si discute, è quello relativo ai criteri di misurazione del cosiddetto merito che di solito sono fondati su regole e paradigmi non sempre oggettivi e scientificamente misurabili.
In una società fondata sulla competizione l’ideologia del merito sta diventando purtroppo il meccanismo principale per delegittimare tutto ciò che è pubblico a vantaggio del privato, per smantellare il welfare, per precarizzare le attività lavorative meno remunerate, per differenziare pesantemente le retribuzioni sulla base di una graduatoria d’importanza delle attività lavorative e per colpevolizzare umanamente gli esclusi ritenendoli responsabili della loro povertà proprio perché senza le qualità personali per accedere ad un lavoro dignitoso.
I poveri allora sono sempre più esclusi dalla redistribuzione della ricchezza nella società della meritocrazia o al più, in barba al diritto al lavoro proclamato ad esempio dalla Costituzione Italiana, si pensa alla predisposizione di sussidi offensivi perché privi di dignità per la persona come i vari “reddito d’inclusione”, “reddito di cittadinanza” o da ultimo “reddito universale”.
Essendo unicamente il lavoro a dare dignità ad un essere umano, è chiaro che solo la piena occupazione è la soluzione al problema di chi oggi è escluso dagli elementi fondamentali per la sussistenza, ma tale rivendicazione si è fermata purtroppo alle lotte del cosiddetto autunno caldo.
In una società fondata sulla solidarietà e la convivenza allora il merito non si può riconoscere solo come nuovo criterio di discriminazione e di identificazione di qualità personali del singolo finalizzato all’acquisizione di salari esorbitanti o di privilegi scandalosi, ma come patrimonio umano da promuovere in tutti sul piano formativo ed educativo per una società nella quale le capacità e le competenze del singolo non sono un sistema di distinzione edonistica e monetarista, ma un dono naturale o acquisito da condividere con tutti.
Anche sul piano politico i concetti di merito e di competenza, pure necessari ed anzi indispensabili nella gestione della res publica, vanno necessariamente abbinati ad una sana nozione di etica e di giustizia sociale per impedire governi aristocratici o plutocratici che sono sempre un grande pericolo per la democrazia ed il sistema parlamentare di rappresentanza degli interessi collettivi.
Su un utilizzo perversamente distorto della meritocrazia come nuova ideologia discriminate del neoliberismo davvero risultano molto interessanti le riflessioni di Mauro Boarelli nel saggio “Contro l’ideologia del merito” edito da Laterza nel 2019 nel quale l’autore fa rilevare come una nuova aristocrazia dell’ingegno, in nome della concorrenza in un mercato sempre più selvaggio, stia creando una stratificazione sociale sempre più inaccettabile eliminando ogni forma di cittadinanza e di uguaglianza.
Daniel Markovits nel volume “The Meritocratic Trap” arriva addirittura ad affermare che “a fronte di una élite di vincenti, la maggioranza sarebbe spinta al margine della società verso lavori sotto-qualificati e sottopagati” mentre, aggiungiamo noi, la concorrenza indebolisce il valore fondamentale della cooperazione.
È quanto purtroppo è avvenuto in Italia con le politiche dei governi di centro-destra e con il Jobs Act del governo Renzi che ha eliminato le tante tutele previste dallo Statuto dei Lavoratori.
Non poteva non occuparsi di tale tema papa Francesco che in questo momento appare davvero nelle sue dichiarazioni come il difensore più strenuo di una società fondata sull’uguaglianza e sull’equità.
Nella visita agli operai dell’Ilva di Genova il 27 maggio 2017 ha affermato testualmente: “La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte.
La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza.
Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi.”
È indubbiamente vero allora quanto sostiene il filosofo statunitense John Bordley Rawls nel saggio “Una teoria della giustizia” del 1971 e cioè che il concetto di merito, pure indispensabile, è del tutto secondario rispetto a quello della giustizia distributiva per promuovere la quale è assolutamente necessario ridisegnare le strutture e i paradigmi della società secondo logiche che escano dal feticcio del profitto e del suo accumulo per dare prevalenza al valore della condivisione e del bene collettivo.
di Umberto Berardo