Un occhio alla pietra e uno all’innovazione
Antonio De Rossi, architetto e docente universitario, direttore del centro di ricerca “Istituto di Architettura Montana”, afferma: «Riuso della parte materiale e riattivazione delle comunità: il processo di rigenerazione delle aree interne comincia da qui»
di Maria Fioretti (da orticalab.it)
17 febbraio 2021
È tra i padri della rigenerazione nelle aree montane e interne. Le sue esperienze e i suoi progetti hanno contribuito a coniugare in modo nuovo i due termini di riuso e di riattivazione, legando insieme la parte fisico-materiale (quindi cultura, patrimonio, architettura, paesaggio) ai processi di riattivazione delle comunità locali.
Antonio De Rossi, architetto e docente universitario, vive nelle Valli valdesi del Piemonte. È professore ordinario in progettazione architettonica e urbana e direttore del centro di ricerca “Istituto di Architettura Montana” (IAM) presso il Politecnico di Torino, dove lavora sui temi dell’architettura e del paesaggio alpino storico e contemporaneo.
Dottorato di ricerca nel 1997 con una tesi dal titolo “La costruzione del territorio alpino. Progetto, trasformazioni fisiche e pratiche sociali nelle Alpi occidentali contemporanee”. Socio fondatore nel 1993 dell’associazione “Avventura Urbana”, una delle prime realtà italiane nel campo della progettazione partecipata. Tra il 2005 e il 2014 è vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino, col quale sperimenta pratiche innovative di accompagnamento progettuale delle grandi trasformazioni urbane.
Nel 2015 vincitore del Premio Mario Rigoni Stern con il volume “La costruzione delle Alpi”, e curatore nel 2018 del libro collettaneo “Riabitare l’Italia”, che è diventato uno dei punti di riferimento del dibattito sulle aree interne.
Il suo nome è legato alla rinascita e alla rigenerazione di Ostana, paese delle Valli occitane che nel 1921 aveva 1.200 abitanti, e che negli anni ’80 è arrivato a contare sei residenti fissi. È in quel momento, cominciando proprio dal punto più basso della curva demografica, che ha avvio un progetto di rivitalizzazione capace di rimettere in gioco esistenze e futuri. Oggi Ostana ha più di 50 abitanti, molti dei quali giovani, con un alto livello di scolarizzazione e figli.
In questo momento storico, sui temi dell’architettura montana e di un ritorno alla vita sulle Alpi, c’è grande attenzione, ma non è stato sempre così: come nasce la volontà di dedicarsi a questi studi?
«All’inizio degli anni ’90 la questione non aveva alcuna visibilità. Certo, iniziavano a esserci alcuni segnali, come la nuova architettura svizzera con figure come Peter Zumthor, o il premio Architettura Alpina Contemporanea organizzato da Sesto Cultura in alta Val Pusteria. Ma essenzialmente il tema dell’architettura alpina era relegato a una questione di studi sulle costruzioni storiche rurali. Quindi qualcosa di legato al passato e quasi regressivo, e non al presente o al futuro. Io invece sono sempre stato convinto che le montagne avrebbero presto ritrovato una loro centralità, andando oltre quei temi della patrimonializzazione o del turismo di matrice urbanocentrica che erano di moda in quegli anni. Ed è intorno a questa convinzione che ho iniziato a lavorare, seguendo un doppio registro. Uno di diffusione culturale che serviva a rendere riconoscibile l’architettura alpina in un’ottica di contemporaneità. L’altro era invece completamente nuovo e puntava a mettere insieme i temi dell’architettura, del paesaggio, del riuso del patrimonio con quelli della costruzione di una rinnovata abitabilità dei luoghi attraverso i processi rigenerativi e di sviluppo locale».
E ha cominciato proprio da Ostana, luogo dell’anima…
«L’Alta Valle Po, dominata dal Monviso e dove ci sono le sorgenti del grande fiume, la frequento dal 1973, da quando avevo 8 anni. Io abito nella valle parallela, a nord, l’ultima della provincia di Torino. A Ostana il percorso di rigenerazione è iniziato nel 1985, uno dei primi in Italia, guidato dal sindaco Giacomo Lombardo, vera figura di innovatore. Io ho iniziato a raccontare di quanto stava avvenendo a Ostana dai primi anni ’90, quando ancora nessuno ne parlava. Dietro al successo odierno di questo percorso rigenerativo c’è quindi un lavoro lungo trentasei anni, che intreccia tanti piani, che vanno dalla produzione culturale fino alla nuova agricoltura. Verso il 2008 Giacomo mi ha chiesto di supportarlo come Politecnico di Torino, coinvolgendoci nei progetti architettonici per Ostana. Abbiamo fatto un lavoro a tutto tondo, che va dalle strategie, dalla ricerca dei finanziamenti, dalla elaborazione di manuali di buone pratiche, fino alle realizzazioni architettoniche o a puntuali dialoghi e consigli quotidiani. Mi piace definire i diversi interventi che abbiamo realizzato come una sorta di infrastrutturazione di welfare che è stata importante per i processi di reinsediamento. Che è la controprova che quella intuizione lontana di mettere insieme l’architettura e i percorsi rigenerativi, attraverso una rete di interventi pubblici estesa sul territorio, era giusta. Abbiamo realizzato un Centro culturale, una Casa del Welfare con servizi alla persona e commerciali, spazi collettivi e per eventi, un Centro benessere e sportivo, un caseificio, e ora puntiamo ad un Housing sociale a supporto dei processi di reinsediamento per giovani famiglie. Non è solo una questione di funzioni, di attrezzature, è anche un tema di qualità architettonica, perché serve a dare riconoscibilità, identità, nell’incrocio tra eredità storiche e contemporaneità, al processo rigenerativo. Molte di queste strutture sono gestite dalla Cooperativa di comunità Viso a Viso».
Possiamo dire che Ostana rappresenta un unicum nel panorama nazionale?
«Penso che ogni percorso di rinascita rappresenti un unicum. Certamente si partiva da una situazione estrema: un paese che contava pochi decenni prima più di mille abitanti ridotto al numero delle dita di una mano. Oggi sono più di 50 e l’obiettivo è di arrivare a 100. Sembra nulla rispetto al mondo, però Ostana dimostra che nulla è impossibile. Questo è il suo valore, non la sua riproducibilità, perché ogni vicenda è una storia a sé».
Dimostra che è possibile tenere fuori la retorica e realizzare il ripopolamento…
«I veri attori nel processo di rigenerazione di Ostana sono stati il Sindaco e la comunità originaria. Negli anni ’60 la maggior parte degli abitanti era andata a vivere nella piana, soprattutto a Torino. Qualcosa di drammatico, ma al contempo anche un’esperienza di emancipazione. Vivevano concentrati nel quartiere di Porta Palazzo. Come succede in tutte le emigrazioni hanno continuato a tenere un rapporto stretto col paese di origine. Quando negli anni ’80 hanno visto che il paese era prossimo a morire, hanno deciso di mettere in campo un progetto di rinascita. Nella Ostana di oggi coesistono almeno quattro comunità, non necessariamente di abitanti fissi. Gli innovatori, ossia gli abitanti originari, che sono molte volte tornati a vivere ad Ostana e sono stati alla base dei percorsi di riattivazione. I supporter, cioè figure con esperienze politiche, culturali, artistiche, tecniche che hanno sostenuto e accompagnato il percorso di riattivazione impegnandosi in prima persona, nell’idea che Ostana rappresentasse qualcosa di nuovo e strategicamente importante. C’è poi la comunità dei nuovi arrivanti che è fatta di storie ed esperienze multiformi, persone che arrivano da Torino, da Milano, ma anche da paesi stranieri, come nel caso di una ragazza tedesca o di un rifugiato pakistano che qui ha trovato ospitalità; è la storia ad esempio dell’attuale sindaca – Silvia Rovere – che lavorava come funzionario in Regione a Torino, e ha mollato tutto venendo col marito spagnolo a vivere a Ostana, dove ha preso in gestione la prima struttura ricettiva aperta in paese dopo tanto tempo; loro figlio Pablo è il primo nato nel paese dopo 37 anni. E poi c’è la comunità dei vecchi Ostanesi che non vivono lì, ma continuano a partecipare alla vita del paese. Questo piccolo melting pot sta dando origine a una nuova cultura locale, frutto del meticciato tra antichi saperi e nuovi apporti. La storia ha insomma ricominciato a scorrere».
Partendo proprio da questa esperienza, come si possono ripensare le aree interne del Paese?
«Beh, chi avesse la soluzione sarebbe pronto per vincere un premio. Posso solo dire quello che ho imparato dalla mia esperienza, a Ostana come in altri progetti di rigenerazione che stiamo facendo. Non c’è progetto di rigenerazione se non c’è una comunità locale forte, e non è affermazione retorica. I Sindaci e le amministrazioni, gli innovatori delle comunità devono essere consapevoli, avere un progetto chiaro e condiviso da portare avanti, perché una cosa è il sogno, l’intenzione, un’altra è praticare nella quotidianità il cambiamento, essere nelle cose e farle funzionare. Non bastano i manifesti, le chiamate alle armi, le case vendute a 1 euro. E le amministrazioni e le comunità devono ancora avere la capacità di trovare e affidarsi a persone portatrici di competenze, creando rapporti fiduciari, perché la mentalità autarchica è il nemico numero uno dei percorsi di rigenerazione. Ovviamente al contempo bisogna essere in grado di costruire una rete minima di servizi fondamentali per garantire quei diritti di cittadinanza che sono alla base dell’abitabilità, e qui si apre un altro discorso importante».
Prego…
«Si può barattare un livello minore di servizi in cambio di una maggiore qualità della vita – e questo in qualche modo è scontato – ma soprattutto se si ha la possibilità di riuscire a fare quello che nelle città oramai è impraticabile. Parlo di progetti personali, di percorsi di imprenditorialità. Riuscire a supportare le persone nei loro bisogni e nei loro desideri è fondamentale, e questo rappresenta un grande atout per le aree interne e montane: essere uno spazio della possibilità. Provo a fare un esempio per chiarire quello che intendo. Stavamo costruendo la Casa Alpina del Welfare, con uno spazio destinato ad attività artigianali, quando si presentano due giovani che vivevano nell’hinterland torinese e che stavano cercando un luogo in montagna per la loro attività. Abbiamo modificato insieme il progetto, riadattandolo in modo che diventasse una panetteria-pasticceria. Sono stati accolti, ascoltati, in un luogo pronto a rispondere alle loro aspettative. Oggi Ostana ha una nuova attività economica di successo portata avanti da due giovani. È questo il lavoro centrale che oggi bisogna fare, lavorando al contempo sulla valenza simbolica e identitaria degli spazi di innovazione».
La storia cambia con la pandemia, il riequilibrio territoriale diventa necessario e sembra che le aree interne siano arrivate ad occupare un posto di rilievo per il rilancio dell’Italia: è una tendenza di cui ci dimenticheremo o davvero è arrivato il momento di guardare all’altro spazio?
«Credo che i due aspetti coesistano, come in tutti i momenti di mutamento. In questa ambiguità può comunque esserci qualcosa di proficuo. Esiste oggi la percezione che questo modo di vivere non può più funzionare esattamente come prima, e su questo le aree interne e montane hanno sicuramente qualcosa da dire, perché l’innovazione molte volte si trova proprio in questi luoghi, anche nelle iniziative più piccole e fragili. Le città attraversano una forte crisi e perdono la loro vivacità culturale, modificando anche le opportunità. Oggi la linea di distinzione e differenza passa tra chi pensa le aree interne come un luogo da dedicare solamente al consumo tramite la patrimonializzazione delle risorse, il marketing territoriale e il turismo, e coloro che invece le pensano come uno spazio strategico dove costruire nuovi valori simbolici e d’uso».
Modificare la visione delle cose, quindi anche delle economie?
«Sì, economie in stretta relazione con i nuovi valori che questi territori possono creare. In un mondo che funziona soltanto sull’estrazione di valore dai luoghi – fino a determinare la desertificazione piuttosto che sviluppo – serve acquisire la capacità di generare qualcosa di nuovo. Le aree interne sono l’unico spazio in cui, negli ultimi dieci anni, è accaduto proprio questo. Hanno saputo creare nuove immagini e immaginari, diventando il catalizzatore di inediti modi di pensare l’abitare i luoghi e di sviluppare economie».
Il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza – ultima domanda, quasi d’obbligo – prevede grandi investimenti per lo sviluppo delle aree interne, meno chiaro sembra essere il metodo che porterà alla realizzazione degli interventi: funzionerà?
«C’è un forte ri-finanziamento della Strategia Nazionale Aree Interne, il Piano quindi riconosce la novità che si afferma su alcuni temi. Certo è una sorta di “trattamento freddo”, vedremo se il Piano avrà la capacità di entrare in rapporto con queste esperienze rigenerative che hanno molto da dire su come potrebbero essere allocate le risorse. E bisogna anche vedere come si riuscirà qualitativamente ad indirizzare e spendere i finanziamenti previsti. Secondo la triade della Snai bisogna guardare all’istruzione e alla formazione, alla sanità – con i servizi socio sanitari – e all’accessibilità, che sia delle infrastrutture pesanti o di quelle digitali per ridurre il divario, aspetti nodali di qualsiasi politica per costruire le società e le economie locali. Importanti risorse sono previste anche per lo sviluppo turistico, però sarebbe importante iniziare a capire che non possono e non devono essere l’unico toccasana per questi luoghi, in quanto devono rappresentare solo una parte del tutto».
Eppure sono 8 i miliardi destinati al turismo, di cui 2,4 da impiegare proprio per il rilancio di siti minori e aree rurali…
«Abbiamo ormai un’estrema consapevolezza che il turismo nelle aree interne e montane può addirittura essere controproducente, perché porta tutta la comunità a percepirlo come una salvezza, dimenticando l’agricoltura, l’artigianato, i nuovi mestieri tecnologici e rurali, l’innovazione. È a partire da questi temi che bisogna prefigurare i progetti di rigenerazione, cercando di costruire nuove competenze proprio a partire dai temi specifici della montagna e della ruralità. Vorrei raccontare una storia molto esplicativa per concludere. Per i Giochi Olimpici di Torino 2006 è stata costruita una pista di Bob in Alta Val Susa; concluso il cantiere che ha radicalmente modificato la montagna – e posto che la pista giace oggi abbandonata – l’impresa per contratto doveva occuparsi di inerbire le zone coinvolte. Continuavano a gettare sementi, ma non attecchivano. Fino a quando un contadino della zona ha dato loro i suoi sementi e sono riusciti ad inerbire i pezzi di prato. Questo per dire che tutta la sperimentazione sulla produzione agro-rurale, tecno-rurale, come anche i centri di competenza per l’innovazione e il trasferimento tecnologico appropriato, dovrebbe svilupparsi proprio nelle aree interne e montane, generando economia sul territorio. È un tema del tutto ignorato nel nostro Paese, eppure assolutamente centrale. Non esiste soltanto il turismo come settore in cui investire. Certo, è importante. Però non si può pensare solo a questo, perché sono tanti i settori in cui è possibile costruire sviluppo e innovazione ancora troppo sottovalutati».
Foto: Mizoun de la Villo, Casa del Welfare, progetto di M. Crotti, A. De Rossi, L. Dutto (Foto di Laura Cantarella)
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