• 2 Marzo 2021

Il Covid nel Fortore molisano

Il lutto, la memoria e le lotte civilie

di Michele Fratino

2 marzo 2021

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Un paio di settimane fa ho scritto questo articolo oggi pubblicato sulla rivista online “Dialoghi Mediterranei” nella rubrica curata dal Prof. Pietro Clemente “Il Centro in Periferia”.
Avevo provato a mettere insieme alcuni dei racconti delle famiglie che si erano scontrate ad armi impari con il Covid e con la sanità molisana.
Non è nelle mie corde scrivere di questi temi, lo sapete, ma credo che in alcuni momenti e in certe battaglie ognuno debba fare la propria parte.
Il Fortore è preso ad esempio per raccontare di un Molise intero, mi era sembrato doveroso uscire dalla retorica del “piccolo è sano” e delle aree interne che si salvano dal Covid e infatti in due settimane la situazione è precipitata e da “trasparenti” siamo diventati fin troppo evidenti!

«Mio padre chiamava per chiedermi di portarlo via, il dottore mi diceva qua è una guerra», con queste parole lo scorso novembre Francesco Mancini di Riccia, un comune in provincia di Campobasso, nel Fortore Molisano, raccontava le ultime ore di vita del padre, ricoverato all’ospedale Cardarelli di Campobasso e deceduto il 12 novembre dopo essere stato ricoverato in seguito a problematiche causate dal Covid.
Michele Mancini di 73 anni era stato segretario comunale nel comune fortorino, conosciuto e apprezzato in molti centri dove le amministrazioni avevano avuto occasione di lavorare con lui, è stato la vittima numero 62 su un totale di morti che in Molise supera i 300. Michele aveva affrontato mesi prima un intervento oncologico a Milano, la classica trasferta sanitaria che costringe sempre più spesso i malati meridionali a lunghe ore di viaggio nella speranza di trovare cure migliori nella sanità del nord Italia. L’operazione era andata bene e Michele stava recuperando, ma proprio dopo una visita di controllo a Milano sono arrivati i sintomi del Covid. La TAC di controllo era andata bene, aveva certificato che il tumore era sparito, ma al rientro in Molise, a Riccia, i primi segnali.
Fino al 31 ottobre, giorno del ricovero in ospedale, Michele si curava a casa. «I primi giorni papà stava bene, lo sentivamo spessissimo al telefono e via messaggio, ma poi ha iniziato a lamentarsi con grande frequenza per la gestione sanitaria nel reparto. Era una persona colta e non certo uno sprovveduto. Tuttavia le sue condizioni non erano gravissime, come gli stessi medici ci hanno sempre detto al telefono». Sembrava che la situazione fosse stabile e che non ci fossero gravi problematiche legate alla malattia, ma il figlio racconta che Michele gli ripeteva di sentirsi abbandonato «che quando chiamava non arrivava nessuno, che veniva lavato poco e in maniera superficiale, che nessuno si preoccupava di sapere come stesse e di fargli domande. Guardi, io all’inizio pensavo a capricci da parte sua, ma con il passare dei giorni queste lamentele diventavano sempre più insistenti. Mi riferiva che trascorrevano giornate intere senza che il medico lo visitasse proprio. I miei dubbi sono aumentati in seguito a una telefonata del primario. Mi diceva che un uomo di 83 anni, dopo 15 giorni di ricovero non aveva avuto nessun miglioramento e che era spacciato, che la situazione era gravissima. Ma mi sono reso conto che aveva sbagliato paziente, perché mio padre aveva 73 anni, non 83, ed era stato ricoverato 10 giorni prima, non 15. Quindi ho continuato a sperare e ho cercato di mettermi in contatto con un altro medico».
Era chiaro che la situazione nel reparto di Malattie Infettive del Cardarelli di Campobasso, unico centro hub per la cura del Covid-19 in Molise fosse complicata. La stessa squadra di medici e infermieri che si era trovata a gestire i momenti più difficili della prima ondata con 32 pazienti ricoverati ora ne aveva da gestire il doppio, ma con lo stesso numero di personale.

«Parlare con i dottori non era affatto semplice, il più delle volte non rispondeva nessuno. Alla fine sono riuscito a parlare telefonicamente con un dottore del reparto che mi ha confermato la gravità della patologia, ma mi ha anche detto che papà avrebbe potuto benissimo farcela, definendo le sue condizioni delicate ma non gravissime, aggiungendo anzi che non era fra i pazienti considerati a maggiore rischio». «C’erano troppi pazienti e troppi pochi medici, come poi un altro dottore mi ha confermato. Mio padre chiamava di continuo supplicandoci di farlo uscire, di riportarlo a casa, perché lì non si sentiva curato. Portarlo via naturalmente era impossibile, il medico ha ribadito che in questi casi il ricovero è coatto, io allora gli ho fatto presente che papà aveva bisogno di sostegno anche psicologico, di maggiore assistenza. Lui mi ha detto, testuali parole: “qui dentro è la terza guerra mondiale!”  Mi ha detto che hanno chiesto il rinforzo del personale ma che il rinforzo non gli è stato dato. Che erano pochi, che non ce la facevano. In pratica non ce la facevano a curare tutti. Questo avveniva l’11 novembre».
La mattina del 12 novembre alle ore 7:29 Francesco riceve un messaggio dal padre che gli chiede di portarlo via dall’ospedale, di riportarlo a casa, “«ra lucido, ha parlato con me via chat e ha parlato al telefono con un suo amico implorandolo di portarlo via, di fare qualcosa per toglierlo da quel posto. Un’ora e mezza dopo però ha chiamato un medico per dire che non c’era più nulla da fare. Ero incredulo, sconvolto, ho voluto sapere che cosa fosse successo e il primario del reparto ha chiamato, sempre nel corso della mattina, dicendomi che tramite telecamera di monitoraggio avevano visto che la mascherina dell’ossigeno era scivolata dal volto e non avevano fatto in tempo a salvarlo!».
Francesco, nonostante tutto, ha avuto il coraggio di raccontare, di non farsi vincere dalla rabbia, ma di trovare il modo per trasformare questa storia in una esperienza per migliorare le sorti della sanità molisana: «Non è colpa dei medici, non punto il dito contro nessuno. Ma c’è un fatto: al Cardarelli il personale è troppo scarso, i ricoverati sono troppo numerosi. Non voglio accusare nessuno ma mi domando se sia stato fatto il possibile per salvare la vita a mio padre. Ho tanti dubbi». «Mi auguro che questa mia denuncia possa servire a cambiare qualcosa, ognuno si prenda le proprie responsabilità ammettendo la cattiva gestione dei malati e l’incapacità a trattare così tanti pazienti e si corra ai ripari».
Francesco Mancini ha affidato alle testate giornalistiche locali e nazionali e alle piattaforme social il suo racconto che è giunto finanche al Ministro Speranza in una interrogazione parlamentare del deputato molisano Federico. Tutto ciò ha spinto i familiari di altre vittime molisane del Covid-19 a raccontare le proprie esperienze e a far nascere un comitato delle vittime del Covid in Molise presieduto dallo stesso Francesco. Le tante storie raccontate hanno purtroppo tutte delle tristi similitudini tra loro, a volte sembrano interscambiabili. Colpisce violentemente le coscienze e spingono alla riflessione le tante storie che sottolineano la mancanza delle attenzioni basilari che si dovrebbero ricevere nel letto di un ospedale, prima di ogni attività diagnostica, medica e di assistenza, la richiesta incessante di tanti ricoverati: l’acqua!
«Quando ho ripreso in mano il telefonino di papà e ho riletto le sue parole, soprattutto quelle scritte poche ore prima di morire, mi è crollato il mondo addosso. È stata un’esperienza terribile, che non auguro a nessuno». A parlare è la figlia di un ottantenne deceduto al Cardarelli di Campobasso il 9 novembre, negli stessi giorni in cui era ricoverato Michele, inconsapevoli compagni di un triste destino. «Papà stava per prendere la terza laurea in medicina, materia che lo appassionava moltissimo. Sapeva tutto di ossigenazione, ventilazione, saturimetri. Ne aveva comprato uno per ognuno di noi figli, anche noi positivi. È stato lui stesso a chiamare il 118 quando si è reso conto che il livello indicato dal saturimetro, strumento inseparabile, scendeva sempre più giù». «Quel giorno, il 2 novembre, è stato l’ultimo giorno che l’ho visto di persona. Poi attraverso videochiamate, tante».
Anche lui come Michele dopo pochi giorni ha iniziato a lamentare la scarsità di assistenza: «non respiro». «Non riesco a respirare, forse questa maschera non funziona bene». «Chiamo, chiamo, ma non viene nessuno». «Ho sete da stamattina e ora sono le 10 di sera. Ho bisogno di acqua, non ce la faccio più».
«Acqua, acqua, acq.».  Sono state le ultime parole del padre di Rocco Lombardi, morto col covid al Cardarelli di Campobasso, un messaggio whatsapp mai inviato, non ha fatto in tempo.
Il Cardarelli di Campobasso diventa un luogo di dolore e di paura, ci si chiede se quelle persone si sarebbero potute salvare o almeno se sarebbero potute morire con maggiore assistenza e dignità.  “Dignità e Verità per le vittime Covid” è il nome che prenderà il comitato, che nel suo atto di costituzione sottolinea che «Non tutte le malattie conoscono terapie efficaci, e questo col Covid vale ancora più di sempre. Tutti i malati possono essere curati, dove la cura è intesa anche come assistenza e umanità nel renderla. Capiamo che l’adeguatezza delle cure va rapportata alle patologie e all’aspettativa di guarigione, ma soprattutto deve essere rapportata alla qualità della degenza per una prospettiva di tutela della salute e della vita. L’organizzazione è venuta a mancare proprio nei reparti vitali e questo ha comportato gravissimi disagi e sofferenze per molte persone, tra cui anche i nostri cari».
Il Comitato metterà in campo le strategie, anche legali, per giungere alla verità, ma tutto ciò ha evidenziato le problematiche presenti nel sistema sanitario, in particolar modo nei territori marginali dell’Italia meridionale. La narrazione retorica delle piccole comunità sfuggite al Covid ha bisogno di essere rivista con spirito critico ed attenzione scientifica. Se da un lato è vero che nei territori delle aree interne sono poche le occasioni di contagio e di assembramento è altrettanto vero che se questo avviene bisogna poi confrontarsi con un sistema sanitario da anni abbandonato e con un elevato numero di popolazione anziana maggiormente a rischio. Proprio nell’area del Fortore si registra una significativa perdita di popolazione: gli indici di vecchiaia sono infatti molto elevati in tutti i Comuni dell’area con valori più alti della media regionale e nazionale delle Aree Interne (la percentuale di popolazione di età superiore a 65 anni risulta per il Fortore del 26,8%, a fronte di un dato regionale del 22,1% e del 23,5% per le aree interne molisane). 

Garantire i livelli di assistenza di base è l’obiettivo cardine che viene richiesto dal territorio del Fortore. L’area è infatti caratterizzata da un forte isolamento territoriale e da una conseguente assenza di continuità assistenziale; di conseguenza, risulta difficile assicurare in maniera capillare un’assistenza sanitaria pubblica a tutti i cittadini dell’area. Ripristinare tali servizi significa attuare un sistema organizzativo territoriale in grado di prendere in carico un bisogno fondamentale che è quello del diritto alla salute per tutti. A tal fine, la messa in atto di azioni sostenibili nel tempo e perfettamente integrate con le esigenze del tessuto sociale significa migliorare le condizioni di salute dei residenti e non solo, mettendo al primo posto la salute dei cittadini.
Puntare su un modello di medicina territoriale fondata su strategie di presidio territoriale più diffuse e tempestive. È essenziale potenziare e riorganizzare la medicina di base e formare i medici di famiglia alla gestione emergenziale, rafforzare il ruolo degli Ospedali di Comunità presenti nelle Aree Interne con opportuni incentivi. Integrare ed estendere gli interventi di telemedicina, in modo da ridurre l’indice di ospedalizzazione evitabile, fondamentale, più che mai, in questo momento. È altresì indispensabile formare e rafforzare le figure degli infermieri, degli assistenti sociosanitari e delle farmacie rurali.
«COVID-19 ha fatto emergere in modo evidente come uno dei bias più tragici della sanità lombarda, così potentemente colpita dalla pandemia, sia stata la centralizzazione dei servizi e l’impoverimento dei presidi sanitari territoriali perché, com’è stato più volte ripetuto, le battaglie per la salute non si vincono negli ospedali (grandi o piccoli che siano) ma con l’integrazione socio-sanitaria e i servizi di prossimità e, più in generale, organizzando e rinforzando i territori, rafforzando la prevenzione e la promozione della salute: è il cosiddetto approccio interdisciplinare urban health che punta sulla cura e infrastrutturazione dei luoghi, sul rafforzamento delle reti locali e dei corpi intermedi, sulla valorizzazione delle intelligenze territoriali e del capitale spaziale e territoriale diffuso organizzando e rinforzando i territori, aumentando la prevenzione e la promozione della salute» (Decalogo per il ritorno degli umani nel mondo, in A. Cancellieri). 

Agire in tempo in questi territori è essenziale per evitare di ascoltare ancora storie che narrano della morte non solo fisica dei nostri vecchi, ma di una morte distante dalla dimensione umana e sentimentale come ad esempio quella di “Nonna Antonietta” che chiamava dall’ospedale di notte, urlando che non voleva finire in un sacco. Quel sacco che aveva visto in televisione, che tanto l’aveva impressionata da strappare una promessa alla nipote Marika: «Era informatissima, seguiva un sacco di programmi, e durante la prima ondata, quando la sfilata lugubre e desolante delle bare di Bergamo ci sembrava così distante, così impossibile, era stata proprio nonna a dirmelo. Mi ripeteva “Io non voglio finire in un sacco, tutto ma non il sacco, ricordatevelo”».  Quelle promesse che spesso le nonne strappano ai nipoti mentre preparano il pranzo della domenica, credendoli forse più distanti dal dolore. Una promessa che Marika non è riuscita a mantenere, che la tormenta: «Ti rendi conto? Io mi sento in colpa, non posso farne a meno. Nonna è stata messa in quel sacco che lei temeva, del quale aveva orrore, e io non mi do pace. Come non riesco a darmi pace per la mancanza di un funerale». «Nonna ci teneva al funerale così tanto, era molto credente, il suo se lo era anche preparato». «Gli abiti e le scarpe scelti, accuratamente selezionati, lavati, stirati e conservati nell’armadio, sono ancora lì, nella camera da letto dove credeva e sperava di poter terminare i suoi giorni. Aveva messo da parte i soldi necessari, aveva organizzato tutto. Mia nonna era una donna energica, decisa, indipendente. Non è giusto che sia finito tutto così, in un ospedale dove non si sentiva accudita».
Un’altra storia simile a quella di Michele Mancini e degli altri di cui abbiamo raccontato. Un’altra storia finita con una telefonata: «Un’infermiera ci ha avvertito che nonna era morta, chiedendoci di contattare l’obitorio. È stato un momento che non dimenticherò mai: io, mamma e papà in salotto, sconvolti e distanti, senza nemmeno la consolazione di un abbraccio per paura di contagiarci a vicenda visto che mio padre era positivo. Io vedevo mamma con il telefono in mano, aveva appena saputo che sua madre era morta e non potevo stringerla, non potevo starle vicino fisicamente». «La mattina successiva ha chiamato un medico per dirci che nonna si era strappata i capelli nel tentativo di togliersi la maschera…».
Tutte storie accadute quasi contemporaneamente, che potrebbero portare a credere ad un momento particolarmente difficile per quell’ospedale, una situazione inaspettata anche se largamente prevista. Ma in realtà i numeri continuano a salire, gennaio diventa il mese con più morti per Covid mai registrato, 76 decessi con 134 ricoveri. L’ospedale fa sempre più paura, il 9 gennaio viene chiuso il reparto di chirurgia, personale e pazienti ricoverati per altre patologie contraggono il virus nel reparto e alcuni di loro non torneranno mai a casa. L’indice RT che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere sarà quasi sempre il più alto di Italia, ma la regione Molise resterà sempre “gialla”. Tutti si chiedono se questo dipenda da una continua gestione superficiale della realtà sanitaria locale, dalla scarsa attenzione che il governo ha sempre avuto nei confronti di una regione piccola, spopolata e poco produttiva, oppure se stiamo passando da quella che ironicamente era considerata “la regione che non esiste” a quella che pare stia diventando la regione “trasparente”.


Michele Fratino, artigiano del ferro, laureato in Scienze dei Beni Culturali e Ambientali con specialistica in Beni Archeologici e Artistici. Impegnato sul territorio regionale molisano come “Mediatore delle Comunità Rurali” in progetti di valorizzazione del patrimonio immateriale e della cultura popolare. Negli anni ha unito le competenze acquisite in bottega con gli studi universitari, occupandosi di ricostruzioni archeologiche, allestimenti di spazi museali e percorsi espositivi, e prototipazione di oggetti di mobil-architettura. Da diversi anni si occupa di animazione culturale nei territori e nelle Aree Interne del Molise. Nel 2018 ho fondato, insieme ad altri quattro professionisti, JustMO’, la prima cooperativa culturale e creativa del Molise. 

di Michele Fratino (da Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021)

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