• 25 Marzo 2021

“La Natura ci parla, ascoltiamola!”

Ascoltare la Natura è fondamentale, non solo per vivere in maniera più sobria e consapevole, ma anche per stare meglio con noi stessi. Ne è convinta Eleonora Matarrese, appassionata di studio, raccolta e lavorazione di erbe e molto attiva nella diffusione di uno stile di vita legato alla Terra e ai suoi frutti

di Cristina Diana Bargu

26 marzo 2021

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Eleonora Matarrese, classe 1976, è una raccoglitrice esperta di piante selvatiche, amante dell’etnobotanica, della natura e delle tradizioni, cuoca, traduttrice specializzata in Filologia Germanica, autrice e frizzante divulgatrice di buone pratiche. Nel 2014, a Monza, ha aperto il primo laboratorio gastronomico italiano di cibo selvatico, Pikniq, ora trasferito a Valganna (VA), mentre nel 2018 ha pubblicato “La Cuoca Selvatica. Storie e ricette per portare la natura in tavola”, edito da Bompiani. Incuriositi dalla sua storia ricca e colorita, l’abbiamo intervistata ed ecco che cosa ci ha raccontato.

Come ti sei avvicinata al riconoscimento e alla raccolta delle piante selvatiche?

Alla base di tutto c’è la tradizione del luogo in cui sono nata: io sono pugliese e in Puglia, ancora oggi, si raccoglie. Non è raro, per esempio, che le signore, soprattutto quelle anziane, mettano fuori dalla porta di casa una sedia di paglia con le erbe raccolte per venderle. Da quando avevo due anni mia nonna mi portava in giro con sé – fra campi, boschi, anche al mare – e raccoglievamo, non perché fossimo povere, ma perché così era normale. Era un’abitudine, come respirare. Facendo un conto, oggi posso dire che mi ha insegnato a riconoscere e a raccogliere circa 36 specie. Poi ho frequentato il corso di Botanica alla Facoltà di Agraria e ho sempre studiato e cucinato le piante che riconoscevo, prima in Puglia e poi, dopo gli studi, in Lombardia, dove mi sono trasferita da circa sedici anni.

So che alla fine hai lasciato Agraria e ti sei Laureata in Lingue e Letterature Straniere.

Sì. Uno dice che non c’entra niente… e invece no! Specializzarmi in Filologia Germanica, per esempio, mi ha aperto la possibilità di tradurre manoscritti come il Lacnunga, una raccolta di metodi di cura pagani del decimo secolo che contiene al suo interno incantesimi, ricette con erbe curative, ma anche di cucina. Quindi, in questo senso, ho proseguito il mio percorso e ricordo che ancor prima di aprire La Cucina del Bosco – il blog da cui poi è nato tutto – avevo aperto un altro blog che si chiamava Wunderkammern, che è il nome di quegli armadi delle meraviglie di moda nel Cinquecento, pieni di tutte le cose che gli esploratori trovavano nei loro viaggi, con cui intendevo condividere e mostrare ad altri le mie scoperte sull’etnobotanica, quindi sull’uso delle erbe da parte degli antichi.

Che cosa ti ha portata a lasciare il tuo lavoro da traduttrice e ad aprire Pikniq, il primo laboratorio gastronomico italiano di cibo selvatico?

Mentre lavoravo come dipendente non vedevo l’ora di tornare a casa per occuparmi dell’orto, di raccogliere, trasformare e cucinare le piante trovate. Un desiderio, questo, che negli anni si è fatto via via più impellente. Quando poi è emersa la crisi economica e le aziende hanno cominciato a licenziare: in quel momento ho iniziato a pensare di andarmene e di aprire con la liquidazione un’attività in linea con le mie passioni. Lo slancio finale me lo ha dato un articolo in cui uno chef presentava il manifesto della cucina nordica, in cui era scritto: “In Scandinavia raccogliamo le erbe spontanee come facevano i nostri avi, quindi la nostra cucina è praticamente a metro zero”. Mi ricordo che mi colpì molto vedere presentata come una moda quella che per me era una conoscenza tradizionale, diffusa in Puglia ma anche in Calabria, in Sicilia, Piemonte, Veneto, Friuli… Mi sono detta: “Se hanno sentito il bisogno di farne un manifesto e poi un articolo vuol dire che le persone stanno dimenticando da dove veniamo”. Così mi sono licenziata, con l’intenzione di condividere quel patrimonio di conoscenze e di gusti che avevo ereditato e ampliato nel corso di decenni.

Quali sono state le tappe del tuo progetto?

L’idea iniziale è stata quella di far entrare sapori e cibi selvatici nelle case delle persone. Così, a Monza, ho aperto il mio laboratorio di trasformazioni alimentari con take away e consegne a domicilio. Era un periodo in cui stavano nascendo anche molti GAS e altri circuiti, come L’Alveare che dice sì, che hanno reso tutto più semplice. Poi tre anni fa mi sono trasferita in provincia di Lecco, dove oltre al laboratorio ho aperto anche un bed&breakfast e un home restaurant. Infine, dall’estate scorsa, sono in Valganna, in provincia di Varese. Qui ho tre ettari di terreno e questo mi permette di fare tutto ciò che ho sempre voluto. Ho un orto che non è un orto, perché non zappo e uso tutto ciò che mi offre la terra. Coltivo, raccolgo, trasformo diverse specie, cucino e continuo a ospitare come b&b. La casa in cui vivo è una dimora storica in stile liberty costruita nel 1896 e perfettamente conservata, anche negli arredi, quindi chi ci viene è catapultato oltre che nella natura anche in un’atmosfera di inizio Novecento.

Come ti sei reinventata con l’arrivo della pandemia?

Mentre ho continuato con l’asporto e, quando possibile, con l’ospitalità, mi sono inventata anche le cosiddette “Wild Box”, delle cassettine che spedisco in Italia e in tutta Europa tramite corriere. Al loro interno metto dieci specie spontanee che cambiano circa ogni dieci giorni seguendo la micro-stagionalità della natura e i trasformati che preparo. Oggi, per esempio, ho finito di fare l’aceto, ma propongo anche la “soda” di Rosa canina e nelle versioni Gourmet e Deluxe metto anche “vino” di fiori, “pane” di ghiande e altri prodotti particolari. Ognuna di queste cose è accompagnata da un foglietto su cui sono riportate le spiegazioni di uso e conservazione e c’è un’area riservata del sito alla quale chi acquista le Wild Box può accedere e trovare, oltre alle schede e alle storie di specie e prodotti, ricette e consigli di trasformazione. Un’idea, questa, che è stata accolta con grande curiosità e interesse. Quando questo caos passerà intendo riaprire il ristorante, ma soprattutto ricominciare a fare i corsi e a trasmettere conoscenze.

Perché secondo te è importante recuperare e conservare questo tipo di conoscenze?

Da una parte c’è la bellezza del non avere tutto pronto e inscatolato. Poi c’è un discorso di sapori, di nutrienti della pianta. Io faccio spesso l’esempio del farinello, che si trova facilmente in natura e ha otto volte più ferro dello spinacio normale. Senza parlare del fatto che lo spinacio che troviamo nei supermercati probabilmente di nutrienti non ne ha neanche più, perché è stato coltivato in serra, con pesticidi, perché magari è un ibrido F1 e tutto ciò che resta di lui è cellulosa, acqua e… chissà cos’altro! Infine c’è l’aspetto ambientale ed economico. Si criticano tanto gli allevamenti intensivi, ma non si parla delle coltivazioni intensive. La monocoltura viene fatta passare per una cosa normale, mentre invece non lo è, perché degrada il paesaggio e rovina il terreno. Sfruttamento ambientale, quindi, ma anche economico dei contadini che vengono spesso presi per il collo. Ciò che paghiamo come clienti, infatti, finisce perlopiù ai grandi distributori, ai supermercati, e viene usato per la pubblicità e per l’inscatolamento. Si aggiunge così inquinamento all’inquinamento, problema su problema.

Qual è un consiglio che daresti a chi ha voglia di un’Italia che Cambia?

Di osservare di più il mondo che ci circonda, di buttare l’occhio fuori dalla finestra, passeggiare, guardare in terra e in alto. Novembre, per esempio, è solitamente un mese “morto”. Uno può pensare che la natura stia andando a riposo, che non ci siano le erbe. Però se tu cammini nel bosco e guardi, osservi, per terra puoi vedere dei frutti. La natura ti sta dando un segnale: anche quando sembra tutto perduto e morto, in realtà c’è vita e c’è nutrimento. E anche adesso: Covid, chiusura, poi al primo raggio di sole vai nel campo e trovi germogli di pungitopo, di vitalba, piante che di per sé sono tossiche, ma quei germogli si possono raccogliere e sono ricchi di ferro e vitamine. Non si tratta solo di riconoscere per nutrirsi. Se si impara di nuovo a osservare si vedrà che se la calendula chiude i petali sta per venire un temporale. Quando l’acetosella chiude le foglie sta per fare freddo. Quindi osservate, perché quest’empatia ci aiuta anche con gli altri e ci fa stare meglio con noi stessi.

di Cristina Diana Bargu (da italiachecambia.org)  

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