Il Parco del Matese sta ancora “parc” heggiato
Il sistema delle aree protette nell’Appennino è come un treno per la sua forma lineare che segue la lunga catena montuosa, fatta di tanti vagoni, che sono le singole montagne, ognuna delle quali costituente un parco. La mancanza di un vagone, il parco del Matese, spezza il treno, evidentemente
di Francesco Manfredi-Selvaggi
11 maggio 2021
Il parco è, nonostante la qualificazione di naturale, in quanto istituzione un pro-dotto storico, ovvero, figlio della civiltà più che della natura. Come tutte le opere, in questo caso immateriali, che l’uomo fa è soggetto a cambiamenti, evoluzioni, ri-pensamenti e, perché no, a contraddizioni.
Ciò, cioè le contraddizioni, sono presenti sin dalla sua genesi. I due più antichi parchi italiani sono sorti su aree già oggetto di protezione essendo riserve di caccia regia, dunque di attività venatoria consentita, però, solo al re, la quale, poi, diventerà una pratica assolutamente vie-tata all’interno dei confini di un parco. Anzi è l’esercizio della caccia la principale proibizione prevista dal regolamento di qualsiasi parco; a questo proposito bisogna considerare che all’epoca non vi erano altre minacce all’integrità dell’ambiente, tipo gli impianti da sci e le residenze turistiche che oggi costituiscono le preoccupa-zioni maggiori. È evidente la contraddizione: da luogo deputato a cacciare a luogo in cui questo “sport” è la cosa meno consentita.
Aggiungiamo, per capire la portata di tale trasformazione, che fino a qualche anno fa gli oppositori più acca-niti alla istituzione di un parco erano i cacciatori i quali, comunque, rimangono contrari, ma sono, come categoria, diminuiti. Il Novecento oltre alle due guerre mondiali ci ha portato alla nascita dei parchi. Sarà stato lo spirito dei tempi, precorso dall’esempio del parco di Yellowstone negli Stati Uniti, una democrazia l’opposto dell’assolutismo con i suoi privilegi tra cui le riserve di caccia per le case regnanti sarà stato ad aver inciso, pure e fortemente, la minaccia di estinzione di due significative specie animali, uno per ciascuno dei due parchi, lo stambecco per il Parco del Gran Paradiso in cui amavano cacciare i Savoia e l’orso marsicano per il Parco d’Abruzzo dove un tempo cacciavano i Borbone. Quello che si voleva salvaguardare era innanzitutto la fauna e allora sarebbe bastato bandire la caccia ma, quasi per una sorta di preveggenza, non ve ne era una diffusa consapevolezza, almeno pari a quella odierna, si scelse di proteggere gli ambienti di vita degli animali selvatici, tutti e non solo dell’orso e dello stambecco. Una decisone molto saggia vista con gli occhi di noi contemporanei perché nell’era attuale i pericoli, eliminata per legge la caccia nei parchi, derivano da altro, dalla costruzione di villaggi turistici, dalle sciovie, ecc.
Forse, si è data troppa importanza ai cacciatori seppure in negativo facendoli assurgere al rango di eroe “negativo”, dando quindi loro una specie di patente di epicità, rappresentanti del male contro il bene, men-tre, invece, si ritiene che il loro ruolo nella determinazione di creare i parchi, non sia poi stata, in veste di contrappositori da tenere a bada così decisivo. La scelta di fa-re parchi è il frutto di un processo lungo di maturazione dell’interesse per gli aspetti naturalistici, iniziato nel XVIII secolo con la comparsa della pittura paesaggistica in cui il paesaggio diventa il soggetto del quadro e non più, quando c’è, il semplice sfondo di rappresentazioni pittoriche che hanno al centro figure umane. La consacrazione definitiva della natura nell’arte e nella letteratura, vedi Leopardi, si ha con il Romanticismo del quale è figlio il Risorgimento e, quindi, il nuovo Stato unitario, l’autore dei parchi. Si ha la scoperta delle Alpi avviata dal De Saussure le quali di-ventano il regno del “sublime” e, per estensione, della montagna in generale. Questo sentimento estetico coinvolge anche le bestie che vivono sui monti, creature misteriose, l’interesse verso le quali è simile a quello verso l’esotico, un gusto che impe-rava in quegli anni (pure nelle classi alte molisane, prendi le “cineserie” conservate nel museo di Baranello). Come si vede si arriva alla tutela del patrimonio faunistico anche attraverso una diversa via. Soprattutto, comunque, ad incantare sono le vedute montane (si prenda Segantini) in linea con un’altra sfaccettatura della temperia culturale del momento che è quella della protezione del paesaggio la quale è incentrata sulla difesa dei panorami; la prima legge in questo campo fu vo-luta da Benedetto Croce, lo stesso pensatore che ispirò la fondazione del Parco Nazionale d’Abruzzo. Contemporaneamente iniziò il regime fascista portatore di ideali se non propriamente guerrieri, “maschilisti” e le cime vengono sentite, la loro ascensione, come una sorta di palestra per la “maschia gioventù” (a Boiano si costituisce l’associazione Gli Scarponi del Matese guidata dall’avvocato Ugo Gentile, Moschettiere del Duce).
I monti, in definitiva, si caricano di una pluralità di significati che li fanno assurgere addirittura ad elementi simbolici, ad acquistare un valore identitario che neanche il brigantaggio post-unitario, fenomeno che nel massiccio matesino nei cui anfratti i briganti trovano facile nascondiglio è molto forte, riesce con la sua carica “negativa” a scalfire. È da evidenziare che nel Molise il Matese è oggetto di orgoglio patrio perché fulcro della nazione sannita capace di tenere te-sta per qualche tempo ad un’autentica potenza imperiale qual’era Roma nell’antichità. Nonostante queste valenze esso non venne riconosciuto “degno”, bisognerà attendere circa un secolo, in questa prima tornata di parchi nazionali, di diventate un parco; eppure i requisiti li avrebbe avuti, pure quello di essere l’areale di un animale in qualche modo prestigioso, il lupo italico, razza endogena così classificata dal campobassano Altobello se non che il lupo era considerato una specie “negativa”, alla quale era impossibile affezionarsi perché una minaccia per la popolazione e per le greggi in alpeggio.
Finita la transumanza il lupo viene riabilitato e riconvertito in un potenziale predatore del cinghiale che lo sostituisce nell’immaginario collettivo a cominciare dalle favole quale pericoloso nemico del-la società: un ostacolo in meno verso l’idea di parco del Matese. Oltre l’esemplare faunistico-simbolo il Matese ha in comune con i due antesignani dei parchi nostrani e della stragrande maggioranza dei successivi di essere un’emergenza montuosa e ciò pare una condizione “sine qua no” in quanto le zone in altitudine risultano sottratte alle alterazioni dovute alla modernità e, di conseguenza, sono le aree in cui la natura si presenta integra; tutto ciò non è sufficiente mancando di un’ulteriore pre-condizione che invece i parchi della “prima ora” avevano, la quale è che erano territori già assoggettati a disposizioni vincolistiche, le riserve di caccia di cui si è detto, di cui il piano diventa la continuazione (verrebbe da pensare che se tali ambiti vennero scelti quali riserve di caccia forse era perché il patrimonio faunistico era superiore per cui il Matese non ha nulla da rivendicare).
Si è discusso, evidentemente, dei criteri adottati in passato nella individuazione dei comprensori da adibire a parco i quali sono superati da nuovi, in particolare quello della biodiversità, cui oc-corre allacciarsi per candidarsi a parco e il Matese pure rispetto a questi si rivela idoneo.
di Francesco Manfredi-Selvaggi