Il Matese pastorale e un pó agricolo
In verità c’è al primo posto l’economia turistica legata allo sci e, poi, c’è pure l’industria boschiva
di Francesco Manfredi-Selvaggi
5 luglio 2021
La scomparsa dei carbonai quasi totale fa perdere le caratteristiche di tradizionalità a quest’ultima attività, che, invece, la pastorizia ancora conserva e che rimane così il connotato tipico del Matese. L’agricoltura è un settore marginale.
Il parco porta lavoro. Cominciamo con la premessa indispensabile che il parco produce occupazione non solo per coloro che vivono all’interno dei suoi confini, ma pure alle comunità che vivono all’intorno dei suoi confini. Non si può però ancora cominciare se non dopo aver fatto un’altra premessa, forse una considerazione scontata, la quale è la seguente: il luogo di provenienza di un prodotto alimentare, non necessariamente deve coincidere con quello di trasformazione. Se il prodotto è stato prodotto in un’Area Protetta ciò già di per sé costituisce garanzia di qualità di quel prodotto, per via dell’integrità ambientale di quel posto.
È bene precisare al proposito che il marchio del Parco non sostituisce ogni altra certificazione, dalla sicurezza igienica alla sostenibilità del processo di lavorazione, fino all’eticità nei rapporti di lavoro, esempio l’impiego di manodopera regolare. Su quest’ultimo punto va detto qualcosa in più ed è che sta diventando difficile trovare persone disposte a rimpiazzare i vecchi pastori che lasciano proprio perché vecchi sia per i sacrifici che richiede la conduzione di un gregge o di una mandria in montagna sia per la scarsa remunerazione della prestazione. È che non ci si rende conto abbastanza che è il lavoro negli alpeggi a far da traino all’economia locale. Il formaggio degli altipiani o l’agnello allevato in quota sono un richiamo molto forte per i turisti i quali consumano tali specialità in loco, nei ristorantini tipici, o li acquistano nel negozietto del villaggio a valle dove pure trovano ricettività.
Una forma di incentivazione della pastorizia potrebbe essere il non far pagare il canone per l’utilizzo dei pascoli montani (in verità, neanche sui tratturi) che sono prevalentemente demanio comunale, a ristoro dei benefici che essa apporta alla collettività. I pecorai e i vaccari sono proprietari degli animali non dei terreni su cui pascolano, dell’erba che brucano e meno male perché così non devono temere del depauperamento del cotico erboso in qualche località potendosi spostare altrove, rimanendo a loro solo, e non è affatto poco, il rischio di epidemie che colpiscono i capi animali. I contadini, invece, sono in possesso di regola della terra che coltivano e ciò li radica ad un certo territorio, bella differenza con i pastori i quali sono produttori che non sono proprietari dei mezzi di produzione, con la conseguenza che non possono essere parte attiva nella predisposizione dei progetti di «miglioramento pascoli», attuati in diverse aree del Matese (uno ha riguardato circa 30 anni fa la raccolta acqua per l’abbeveraggio delle bestie a Capo dell’Orso). Sono, in definitiva, in balia delle amministrazioni civiche le quali detenendo i mezzi di produzione, cioè i prati in altitudine non possono esimersi dallo svolgere un ruolo di soggetti imprenditoriali il che significa anche mettersi in concorrenza con i comuni vicini per attrarre nel proprio territorio gli armenti che ancora frequentano il massiccio matesino. Una cosa di tale tipo, ovvero la competizione tra enti locali contigui non è stata mai sperimentata qui da noi e neanche il consorziarsi fra loro se non, per quanto riguarda il consorzio, quando erano attive le Comunità Montane.
Diciamolo subito, pastori e contadini abitano entrambi comprensori montuosi, il Matese, ma a quote differenti, più alte quelle dei pastori ed entrambe, zootecnia e agricoltura, da una certa curva di livello in su sono, tutto sommato, condotte con metodi tradizionali con i secondi che hanno la proprietà dei terreni su cui esplicano la loro attività lavorativa e nonostante ciò non si modernizzano. Fermandoci ancora un po’ sui primi e fermandoci alla modernizzazione è da aggiungere che si sono avute alcune avvisaglie di innovazione nel settore zootecnico sulla montagna matesina in linea con le concezioni moderne di allevamento. La grande stalla della famiglia Muccilli a Campitello con le mucche alimentate nel periodo invernale dall‘erbaggio di sfalcio del cotico erboso del pianoro e nel periodo estivo lasciate libere al pascolo nel medesimo pianoro è ora chiusa. Sono state realizzate micidiali sterrate per consentire ai furgoni della raccolta latte di raggiungere gli stazzi posti a cavallo della Gallinola, nel versante molisano a Capodacqua su quello campano nella valle dell’Esule. La principale iniziativa di adeguamento all’era moderna è stata quella dovuta alla Cirio, la grande impresa a partecipazione statale, nella conca di Lago Matese, oggi evoluta, passando di mano, qualcuno potrebbe dire con un “ritorno al passato”, in un’azienda ad indirizzo agrituristico, le Folaghe.
Ci si era appena affacciati al futuro e si incomincia, invece, ad andare indietro, con un percorso ineludibile di riconversione dell’allevatore, subito dopo essere giunto alla soglia della modernità, nel pastore di un tempo. Infatti, appare inevitabile la riduzione del carico di bestiame sul Matese, una volta andato in funzione il Parco, per la necessità di assicurare le risorse trofiche all’orso, specie di primaria importanza a scala internazionale, il quale potrà estendere il suo areale sui nostri monti, essendosi rivelato insufficiente per la sopravvivenza il confinamento attuale nel territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo. È il tempo, residuo nell’economia, temporale, della esposizione in corso, di dire qualcosa in più sull’agricoltore. Lo spazio minore che si dedica a questo operatore economico è giustificato dal minore spazio che occupa l’agricoltura rispetto alla pastorizia nella fascia propriamente montana.
Limitiamo le osservazioni, si precisa, esclusivamente al fronte del Matese ricadente nel Molise. In un rilievo carsico sono rare le sorgenti ad alta quota dove peraltro le pratiche agricole sono impedite, oltre che dalla mancanza di possibilità di approvvigionamento idrico per l’irrigazione dei campi, dal clima rigido. Sempre in alto, ma un po’ più in basso, intorno all’isoipsa di 1000 metri, vi è una situazione favorevole all’impianto di coltivazioni, beninteso di colture che si accontentano di un substrato pedologico poco profondo dovuto al fatto che ci troviamo in una formazione rocciosa e capaci di resistere al gelo, ad ogni modo meno intenso che in sommità; tale condizione climatica, la morfologia del suolo qui poco acclive, l’esistenza di scaturigini lungo una linea ideale che inizia a Roccamandolfi da Acqua La Tocca, prosegue con le sorgenti del Callora nel medesimo comune, continua con quelle del Lorda a Castelpizzuto e si estende fino ad Acqua dei Faggi a Longano e Acquabona di Monteroduni, costituiscono tutti fattori favorevoli allo sfruttamento agricolo di una striscia di territorio posto nella zona mediana della montagna ricadente nella provincia di Isernia.
È un’agricoltura, lo si ripete, povera, soprattutto in termini quantitativi per la scarsa resa per ettaro. Ai tempi odierni in cui si è più attenti alla qualità che alla quantità le produzioni di altura, specie quelle tipiche, sono richieste sul mercato, vedi le lenticchie di Capracotta, per cui è immaginabile una rivalutazione del settore primario anche sul Matese arricchendo la sua offerta enogastronomica.
di Francesco Manfredi-Selvaggi