All’origine degli insediamenti umani
La casistica è assai varia rendendo impossibile ricondurre a un ristretto numero di tipologie i nuclei abitati molisani in relazione alla loro collocazione
di Francesco Manfredi-Selvaggi
13 settembre 2021
Ovviamente in Molise. Qui non ci si interessa degli aspetti storici, bensì di quelli geografici i quali sono determinanti per capire il perché dell’ubicazione di un nucleo abitato in quel certo sito. La casistica è assai varia rendendo impossibile ricondurre a un ristretto numero di tipologie i nuclei abitati molisani in relazione alla loro collocazione, se di pianura, di collina o di montagna o su una “morgia”.
Partiamo senza preamboli ad illustrare alcune scelte localizzative di insediamenti umani nel Molise le quali capita, e questo sì è un preambolo, siano diversissime fra loro. Abbiamo il caso di Guardialfiera che pur si essere in un punto di scolta centrale della valle del Biferno accetta di stare vicino ad un tratto in cui il fiume, prima della realizzazione dell’invaso del Liscione, si impaludava e quindi provocava l’insalubrità dell’area nei dintorni; diversi titolari dell’antica sede vescovile per sottrarsi al pericolo di malaricità, preferiscono così trasferirsi a Castelmauro.
Dal fondovalle rapidamente passiamo al più alto dei comuni molisani, Capracotta, il quale, invece, si posiziona in un valico in quota che congiunge i bacini del Trigno e del Sangro; in verità, l’ubicazione del centro abitato è lievemente discosto da tale sella, mentre è esattamente sul percorso, il quale coincide con una strada dell’agglomerato urbano, che conduce al versante opposto di monte Campo dove sta Pescopennataro. Il momento di passaggio tra i 2 lati del monte che è Prato Gentile, non molto lontano dal nostro abitato, è segnato dalla presenza di una casa cantoniera trasformata in una sorta di baita turistica a servizio del carosello di piste da sci assai accorsato dagli appassionati della neve.
Abbiamo visto finora un nucleo insediativo di vallata e uno montano e adesso andiamo in uno propriamente fluviale, cioè toccato dal corso d’acqua che è sempre il Biferno. Esso è Bojano la cui localizzazione adiacente al corpo idrico il quale è indubbiamente fonte di umidità non proprio benefica per la salute dell’uomo, si giustifica per l’essere, poiché siamo alle sue sorgenti, il guado preferenziale del Biferno; nonostante tale situazione favorevole per l’attraversamento il futuro re di Napoli Francesco II, comunque, in viaggio diretto a Campobasso dovette, una volta giunto lì, scendere dalla carrozza e oltrepassare la Fiumara, è il significativo toponimo del pezzo di asta idrica alle porte del centro matesino, a piedi.
Bojano, oltre ad essere un cittadina fluviale è anche una cittadina di pianura e non potrebbe essere altrimenti, è ovvio perché i corsi d’acqua scorrono nella piana che essi stessi, peraltro, hanno formato con i loro depositi alluvionali; è interessante a tale proposito far rilevare che è nelle zone pianeggianti che sorgono di regola le città fin dall’epoca dei Romani, qui il Municipium di Bovianum Undecanorum, i quali per le colonie che costruivano seguivano lo schema del castrum, modello che si applica alle superfici piatte.
Ad ogni modo, il capoluogo bifernino, nella presente esposizione, si è scelto quale esemplificazione, in verità l’unico caso, degli aggregati abitati fluviali lasciando il compito di rappresentare quelli in piano a Venafro. In quest’ultimo si coglie un altro significato che va attribuito, in relazione alla nascita di un borgo, alle fonti sorgentizie, sicuramente un fattore localizzativo determinante, ma non più perché il transito qui sia agevole, quanto piuttosto perché garantiscono un approvvigionamento idrico perenne, anche durante gli assedi militari.
Si tratta delle scaturigini del S. Bartolomeo che, poi, ad una certa distanza da Venafro, confluirà nel Volturno. Si è preannunciato che Venafro è il rappresentante prescelto delle comunità di pianura le quali, oltre che per la particolare conformazione orografica sottolineata in precedenza (ancora il pre-) sono popolose se, ulteriore requisito, vi è una larga disponibilità di acqua da bere. In altri termini, per un impianto urbanistico consistente non basta che il suolo sia orizzontale, occorrendo che vi siano, pure, fontane per dissetare la gente che vi vive.
Come si sarà notato, le logiche localizzative delle quali si è parlato costituiscono, in fin dei conti, delle eccezioni nel panorama delle agglomerazioni edilizie della nostra regione e, in coerenza, continuiamo ad interessarci delle singolarità. Si tratta degli abitati rupestri seppure da noi non rappresentano fatti rarissimi. Va sottolineato, nel contempo, che siamo di fronte ad un campionario di paesi estremamente differenti come configurazione fisica fra loro, peraltro tutti bellissimi se non si vuole usare qualcuno degli aggettivi affascinante, fantasmagorico, misterioso.
Le differenze sono dovute soprattutto alla diversità degli ammassi lapidei su cui poggiano. La caratteristica saliente di Pietrabbondante è che le “morge”, sono tre e sono riportate nello stemma civico, con le abitazioni solo nella fascia bassa di queste, sembrano servire, disposte come sono solo in un fianco del perimetro cittadino, quello tendenzialmente a nord, a riparare le case dai venti freddi e, conseguentemente, dall’acqua ventata. L’avere sorgenti alle pareti calcaree è, per un verso, un vantaggio, quello descritto, e, però, per un altro verso, uno svantaggio in termini di distacco dei massi che sovrastano le residenze il quale si verifica, successe nel 1984, a seguito di scosse sismiche.
Vale la pena aggiungere che tale fenomeno ha interessato pure realtà urbane non cresciute sopra una qualche enorme pietra, morgia, rupe, masso o pesco che sia, bensì sotto ed è il caso di Pesche minacciata dalla caduta di lastre di calcare. Se introduciamo il tema dell’ecosistema urbano vediamo che lo stare appollaiati su uno spuntone pietroso provoca un intenso ruscellamento delle acque di pioggia non potendo esse essere assorbite dal sottosuolo come succede invece lì dove il substrato è terrigno.
Giambattista Vico ci ha insegnato che i problemi si trasformano in opportunità se uno li sa cogliere aggiungiamo noi come fecero gli abitanti, monaci e briganti, della morgia, appunto, dei Briganti con lo scavare nella roccia canalette e vasche per raccogliere le acque piovane sfruttando la proprietà di impermeabilità che possiede la pietra. È da dire che nel territorio regionale non si è mai affermata una vera e propria civiltà rupestre tanto che con l’eccezione di pochi episodi come quello appena citato, dopo l’era dell’uomo delle caverne, non si sono più abitate le grotte le quali sono state utilizzate esclusivamente come ricoveri.
Nel capoluogo regionale le cavità sono tantissime e però stanno nel sottosuolo, prive di aperture aeroilluminanti, e ciò ha impedito di adattarle ad alloggi (un risvolto positivo vi sarebbe stato ed è che gli antri appaiono insensibili agli eventi tellurici). Per spiegare meglio la situazione campobassana conviene fare una comparazione con quella materana: nella città lucana le cavità, ciascuna per volume rapportabile a quelle della “capitale” del Molise, si sviluppano in lunghezza, a differenza delle seconde, invece, vanno in profondità.
Mediante una facciata aggiunta dotata di portone e che è pure una presa d’aria e altre bucature di finestre le grotte a Matera ricevono aria e luce, le quali sono, al contrario, impossibilitate a penetrare negli ambienti cavernosi di Campobasso in cui si scende da un buco nel pavimento al piano terra dello stabile. Si conclude qui la rassegna delle motivazioni di tipo geografico che sono all’origine della formazione di un certo numero di entità urbanistiche nella nostra regione, quelle di primo acchito meno comparabili; è stato impossibile nel lavoro svolto definire precise categorie di classificazione poiché qualsiasi tentativo si scontra con l’unicità dell’«oggetto», delle realtà insediative, le quali se hanno aspetti in comune ne hanno altrettanti divergenti pure in una piccola regione come il Molise e in ciò sta una parte della sua bellezza.
di Francesco Manfredi-Selvaggi