La retorica del borgo
Nel linguaggio comune, dal Nord al Sud di questa Italia incompresa e scarsamente rappresentata, quando si vuole indicare il luogo dove si nasce, dove si torna o dove si resta, si dice “paese”, non “borgo”
di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, settembre 2021)
13 settembre 2021
Piccolo è bello, si dice. Ma piccolo è soprattutto fatica, lotta, resistenza e purtroppo anche rassegnazione, alla fine. Tutti adesso si riempiono la bocca con le presunte virtù dei piccoli borghi, visti come luoghi più sani al cospetto della pandemia, presi di mira dai vacanzieri del fine settimana, osannati da giornalisti di tendenza, archistar e intellettuali urbani, ricercati come fossero isole felici o angoli dove appartarsi. Nelle aree interne, in quell’Italia rurale progressivamente marginalizzata e ferita, privata del fondamentale diritto all’uguaglianza nelle opportunità e nei diritti, ci sono tante realtà che si ritrovano al centro di una contraddizione palese: elogiate da tutti e discriminate dalla politica, che continua imperturbata a produrre norme valide indistintamente per Milano e Colletorto, per Napoli e Carpineti, per le grandi città e i più piccoli centri delle montagne e delle colline spopolate. In una realtà plurale e fortemente differenziata come quella italiana, non c’è peggiore disuguaglianza che trattare tutti allo stesso modo. Leggi uguali, fiscalità identica, misure scolastiche o sanitarie omogenee non si addicono al governo di un Paese come il nostro: nel migliore dei casi cristallizzano le disuguaglianze territoriali e sociali; spesso le rendono più acute e profonde. Eppure, nella Costituzione c’è il principio della differenziazione (art. 118); perché non viene applicato correntemente? La stessa Costituzione che ha tra i principi fondamentali proprio quello dell’uguaglianza, dove stabilisce che tutti i cittadini sono eguali (non che sono più o meno eguali a seconda di dove vivono, se nella città o nel paese o nella campagna) e che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza (art. 3).
Io al termine ‘borgo’ preferisco sempre quello di ‘paese’. I paesi tuoi di Cesare Pavese o, per inquadrare il Molise, quelli contadini di Francesco Jovine e prima di lui i paesi elementari di Lina Pietravalle. Nella letteratura come nella vita era la rete dei paesi a definire l’identità di una regione, la pluralità del paesaggio italiano: paesi fitti, paesi radi, assolati o grigi, svettanti sulla cima dei colli o aggrappati alle pendici dei monti. Anche nel linguaggio comune, dal Nord al Sud di questa Italia incompresa e scarsamente rappresentata, quando si vuole indicare il luogo dove si nasce, dove si torna o dove si resta, si dice “paese”, non “borgo”: vado in paese, torno al paese, ecc.
Il borgo riguarda soprattutto la dimensione urbanistica, definisce più il contenitore che il contenuto, mentre il termine ‘paese’ rimanda alla comunità, all’insieme di relazioni e funzioni che includono le persone, le loro attività, i loro sentimenti di appartenenza e di vicinato. La vicinanza è un valore essenziale, base della coesione sociale, spazio di gestione dei conflitti, riconoscimento comune e reciproco che influenza la sfera della dignità e della responsabilità. Nel paese i comportamenti individuali diventano così pratica collettiva, l’iniziativa privata si incastra sempre con la dimensione comunitaria. In qualche caso la vicinanza assume anche un ruolo istituzionale, configurandosi come la società di paese: a Buggiano, in Toscana, fin dal medioevo il Comune era formato da “quattro vicinanze insieme confederate”, come recitavano gli statuti, e i paesi erano la base della rappresentanza politica. Ogni vicinanza era un paese e viceversa. Il paese è un tutto nel tutto, mentre il borgo è solo una parte, una visione parziale e riduttiva della comunità. Anche storicamente, il borgo indicava soltanto una parte del villaggio fortificato, oppure un aggregato di case sviluppatosi nel suburbio, cioè subito fuori delle antiche mura.
Rimettere al centro i paesi, rifuggendo la retorica del piccoloborghismo, sarebbe la grande opera di cui ha bisogno l’Italia, un contributo alla sperimentazione di un nuovo modo di vivere, di produrre e di consumare. C’è già, nelle pratiche nascoste dell’Italia rurale, un pur timido fenomeno di ritorno – la tornanza che si unisce alla restanza, come dice Vito Teti – rappresentato da alcune esperienze di rinascita territoriale e da una moltitudine di casi di agricoltori, allevatori, smart workers, enogastronomi… che spontaneamente hanno preso la strada dell’interno, della campagna e dei paesi. La tendenza al ritorno deriva anche dalla crisi del modello urbano, da spinte centrifughe generate dalle difficoltà e dai rischi della vita in città. Ma lo spopolamento e i problemi delle aree interne non possono essere risolti applicandovi lo stesso modello che le ha marginalizzate. È necessario innanzitutto il rispetto delle vocazioni dei luoghi, dei valori delle comunità locali, del rapporto con la natura, come è indispensabile praticare stili di vita e forme di economia che non replichino i cliché della vita urbana e del mercato. Filiere corte, autoconsumo, autoproduzione, gestione collettiva dei beni comuni, solidarietà al posto della competizione, microimprese cooperative, diventano ingredienti basilari che devono essere accompagnati da politiche differenziate, specialmente nella fiscalità e nell’organizzazione dei servizi: scuola, sanità e trasporti in primis. È la via per sfuggire ai rischi della colonizzazione culturale, dello snaturamento e dello spaesamento. Il paese è comunità, non è solo un borgo o un buen retiro; è luogo di attività e di incontro, di relazioni e di integrazione culturale; deve essere visto come un piccolo mondo aperto al mondo.
di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, settembre 2021)