Qualche volta i campobassani si arrabbiano
Verso la fine del diciottesimo secolo i campobassani si arrabbiarono sul serio e linciarono un intero plotone militare…
di Luca DC – fb
31 gennaio 2022
Verso la fine del diciottesimo secolo, per contrastare l’avanzata dell’esercito francese guidato dal generale Napoleone, il Re Ferdinando IV di Borbone invitò i giovani di tutto il Regno di Napoli ad arruolarsi volontariamente nella guardia nazionale, per difendere la propria patria in cambio di una cospicua retribuzione, un’immunità di foro e l’esenzione dalle tasse per un decennio.
La chiamata alle armi si rivelò ben presto un invito a nozze per i peggiori criminali del regno, molti dei quali accettarono di arruolarsi pur di saldare il proprio debito con la giustizia e beneficiare dei privilegi della milizia. Il giorno 21 novembre del 1796, 53 volontari partirono da Lucera, diretti a Napoli; si trattava per lo più di violenti pregiudicati affidati al comandante Cosmo Cavallo, il quale, accortosi della loro inaffidabilità, decise di seguirli anziché precederli durante il viaggio, onde evitare spiacevoli sorprese. Viaggiavano a piedi e, come da disposizioni reali, avevano diritto a vitto e alloggio lungo il percorso. Giunti a Volturara, i volontari iniziarono a manifestare la loro cattiva indole, importunando gli abitanti del paese, con i quali per poco non nacque un conflitto. A Pietracatella, non soddisfatti del vettovagliamento ricevuto, forzarono l’ingresso di una taverna, razziando ciò che era presente all’interno; episodio simile si verificò a Campodipietra, dove riuscirono a portar via alcuni cavalli.
Due giorni dopo la partenza, alle ore 12 circa del mercoledì 23, entrarono a Campobasso. Appena raggiunta la taverna di Angiolo Lionetto alias Angiolillo (la taverna si trovava sull’attuale Piazza Pepe, di fronte al palazzo della Prefettura) dove era previsto il pernottamento, il comandante Cavallo, per precauzione, ordinò ai suoi seguaci di depositare tutte le armi in una stanza che provvide personalmente a chiudere e a conservarne la chiave. I volontari, disarmati e divisi in gruppi, iniziarono a girovagare per la città ma in men che non si dica nacquero i primi tafferugli con i residenti: nella taverna del procaccio (l’ufficio postale dell’epoca, che era situato all’incirca dove oggi inizia Via Orefici) alcuni volontari minacciarono di morte il procaccia Carlantonio Tamburrini che si era rifiutato di consegnare loro un cavallo; nel frattempo, in prossimità del mercato cittadino, un altro gruppo tentò di rubare le carrozze ad alcuni residenti, i quali, per sventare il furto, vennero alle mani con i malintenzionati, ferendone uno. Per vendicare l’offesa subita, i volontari si precipitarono alla taverna di Angiolillo e dopo aver forzato la porta della stanza ed essersi rimpossessati delle proprie armi, tornarono sul luogo della baruffa, dove però non trovarono più nessuno. Sopraffatti dalla rabbia, i volontari iniziarono a sparare all’impazzata contro porte e finestre, ferendo i passanti e uccidendo Vincenzo Di Pardo alias Campolescia. I campobassani, inferociti per l’accaduto, presero in spalla il cadavere di Campolescia e si diressero sotto la sede del governatore Stefano Caporeale, al quale chiesero giustizia e vendetta per il loro concittadino barbaramente ucciso senza alcuna ragione. Il governatore, resosi conto della gravità della situazione, ordinò di suonare a martello le campane della Trinità (Il suono delle campane a martello era il segnale di allarme dell’epoca, serviva ad avvisare la popolazione di un imminente pericolo pubblico); immediatamente i campobassani più audaci si riversarono in strada con qualsiasi tipo di arma, dalle zappe ai fucili, alla ricerca dei volontari che, spaventati dal numero e dalla rabbia dei residenti, si dettero alla fuga. Isolati e senza munizioni, non ebbero via di scampo. Molti di loro vennero scannati in piazza, altri che avevano tentato la fuga verso Ferrazzano, furono raggiunti e trucidati o catturati e tradotti in carcere; uno di questi venne sfregiato in volto a tal punto da non poter più essere riconoscibile. Il Comandante Cavallo, che si trovava nel Largo del Fondaco della Farina, in casa del barone Jannucci, avvertito del tumulto, si precipitò in strada con l’intento di sedare la rissa che immaginava insorta fra i suoi soldati ma, appena fuori dalla porta della piazza, ricevette dal popolo inferocito, un colpo di mazza alla testa e contemporaneamente una fucilata al fianco destro. Gravemente ferito, il comandante riuscì a mettersi in salvo in casa di Giuseppe De Nigris, per poi essere ospitato e curato in casa Salottolo.
Questa vicenda, ricordata in seguito come “l’eccidio dei regolari”, si concluse con l’uccisione di buona parte dei volontari e l’incarcerazione dei restanti. Il Re di Napoli, venuto a conoscenza dello spiacevole episodio, fece aprire un’indagine allo scopo di far arrestare i tumultuanti campobassani accusati di aver eliminato un intero plotone del suo esercito ma il tutto venne insabbiato, lasciando impuniti gli autori del linciaggio.
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Didascalia immagine: “Veduta della città di Campobasso presa dall’albergo di Lamiceli nella Strada dei Novelli, da Pasquale Mattei nel 1856”
*La Strada dei Novelli corrisponde all’attuale Via Vittorio Veneto.
di Luca DC – fb