In memoria di P. Giacomo Rigali
Poche righe per commemorare questo carissimo confratello, che ci ha lasciato qualche giorno fa per via di un cancro che lo affliggeva da qualche tempo
di p. Antonio Germano Das, sx. antoniogermano2@gmail.com
7 marzo 2022
P. Giacomo Rigali era arrivato in Bangladesh nel 1976, sei mesi prima di me. Trascorremo insieme sei mesi nell’Oriental Institute di Shagordi-Barisal frequentando il corso di lingua bengalese: lui già proficiente ed io alle prime armi. Il suo ritorno al Padre lo scorso 3 marzo mi ha colpito profondamente. Pensando a lui, due termini lo qualificano ai miei occhi: un grande uomo ed un grande missionario. In qualunque posto P. Giacomo sia stato e qualunque ministero abbia svolto, dovunque egli ha lasciato l’impronta della sua personalità carismatica. Per me è stato anche un grande amico. Lascio ai tanti confratelli che l’hanno conosciuto in Italia, in Bangladesh e nelle Filippine di mettere in risalto i tratti salienti di quest’altro gran pezzo di Saveriano che ci ha lasciato, io mi limito a ricordare un episodio della mia vita missionaria, che mi fece apprezzare la sua umanità e la statura della sua personalità.
Vado indietro nel secolo scorso e precisamente nell’Aprile del 1985: P. Giacomo Rigali era Superiore Regionale ed io, insieme a P. Osvaldo Torresani, svolgevo la mia missione a Borodol. Mons. Michael D’ Rozario era il nostro Vescovo. Con P. Piero Colombara prima e successivamente con P. Osvaldo avevamo ingaggiato una battaglia per eliminare quella che noi consideravamo la piaga sociale dei nostri Cristiani-Muci, perchè impediva loro di accedere alla pari dignità degli altri uomini. Pur essendo diventati Cristiani da quasi 50 anni ormai, non avevano abbandonato la pratica dei loro antenati, che continuava a tenerli ad un livello sub-umano nei confronti sia degli Hindu sia dei Musulmani. Tre erano i termini che li qualificavano e impedivano di non essere più chiamati Muci: scuoiatori di animali (vacche soprattutto), avvelenatori e mangiatori di carne di carogne.
Noi avevamo capito molto bene che le tre attività erano strettamente connesse fra di loro e che per eliminarne una, bisognava eliminarle in blocco. Prima di scendere in campo per la battaglia, avevamo preparato il terreno con un capillare processo di coscientizzazione e soprattutto con iniziative di lavoro, intese ad eliminare il vecchio mestiere. Quando credemmo che fosse arrivato il tempo per prendere una decisione al riguardo ed iniziare il cammino di liberazione, convocammo un’assemblea. Erano presenti i rappresentanti di tutte le famiglie. Dinanzi a tutti fu proclamato l’indirizzo del cammino intrapreso: per rimanere nella comunità cristiana occorreva abbandonare il mestiere degli antichi padri. L’adesione al proclama fu quasi plebiscitaria, con l’eccezione dei rappresentanti di alcune famiglie che tornarono ad essere Muci. La decisione comunque fu presa ed il cammino intrapreso. Al momento veniva attuata a Borodol, centro della missione. Successivamente darebbe stata estesa a tutti gli altri villaggi.
Venne l’occasione buona: inaugurazione della nuova casa dei Padri. Era presente il Vescovo ed erano stati invitati tutti i leader (matubbor) degli altri villaggi. Dopo l’inaugurazione, nella lunga e larga veranda della casa, iniziava l’assemblea presieduta dal Vescovo: presenti i 50 rappresentanti dei villaggi. Tutto sembrava procedere bene, ma avevamo fatto i conti senza l’oste e questa volta l’oste era il Vescovo. Il nostro intento, mio e di P. Osvaldo, era di rendere chiaro a tutti quello che sarebbe stato il nuovo cammino della missione. L’intento del Vescovo, invece, era diverso: la sua preoccupazione era quella di riportare all’ovile le famiglie ritornate Muci. Così, quando inizia il dibattito, da parte mia, a chiare lettere faccio capire alla mia gente quella che da allora in poi sarebbe stata la strada da percorrere.
Il Vescovo, intervenendo dopo di me, demolisce l’uno dopo l’altro i punti che noi ritenevamo fondamentali per il cammino di liberazione della nostra gente. Esordisce dicendo che sì l’avvelenamento è da condannare, ma lo scuoiare è un mestiere come gli altri. Quanto poi al mangiare carne di carogne, lo dice anche Gesù nel Vangelo che quello che entra dalla bocca non contamina l’uomo. Così nel giro di pochi minuti veniva annullato quel lungo processo che doveva trovare qui il suo coronamento. Il Vescovo, da bengalese, non aveva capito o non voleva capire che le tre attività erano strettamente connesse fra di loro e che, volendo eliminarne una (l’avvelenamento), bisognava eliminarle tutte e tre.
Ma il culmine della parodia arriva quando il Vescovo, spinto dallo zelo di richiamare all’ovile le famiglie ritornate Muci, chiede all’assemblea se si potevano invitare i loro rappresentanti. I presenti non sono in grado di opporsi al Vescovo, che così chiede ad uno di loro di andarli a chiamare. A questo punto, io non ho altra scelta. Mi alzo, saluto il Vescovo e l’assemblea ed esco. Il mio gesto, con strana sorpresa, è seguito anche dagli altri, che, l’uno dopo l’altro, si alzano lasciando il Vescovo da solo. Frastornato come sono, giro avanti e indietro nel cortile non sapendo cosa fare. Ad un tratto mi dirigo verso il luogo dove si trova la moto con l’intento di fuggire. I capi-villaggio, che non avevano tolto lo sguardo dal mio vagare convulso, mi si fanno incontro e due di loro mi tolgono dalle mani la moto. Uno di loro dice: “Padre, se vai via tu, noi torniamo allo stato brado”. Mi scendono due lacrime dagli occhi e dico: “Non ho pianto così neppure quando è morta mia madre”.
Mi rifugio in chiesa. Mi raggiunge P.Osvaldo, che non era presente in assemblea quando era scoppiato il dramma. Gli racconto l’accaduto e tutti e due scoppiamo a piangere come bambini. Ceniamo in silenzio in compagnia del Vescovo. Il mattino successivo, a colazione, il Vescovo prende a rimproverarmi dicendo che gli avevo mancato di rispetto di fronte alla gente. Al che io mi alzo, metto significatamente il piede sulla sedia e dico: “Ma come! Lei mi mette il piede sulla testa e non mi dà neppure modo di dire che mi fa male? Lei è vescovo e reclama la sua dignità, ma si ricordi che la stessa dignità appartiene anche me come persona!”
Dopo colazione lasciamo Borodol: il Vescovo fa ritorno alla Bishop’s House e P. Osvaldo ed il sottoscritto ci rechiamo a Boyra per riferire l’accaduto al nostro Superiore P. Giacomo Rigali, il quale ovviamente era al corrente della policy che stava andando avanti nella missione di Borodol. Sentito il nostro racconto, P. Giacomo si reca dal Vescovo per dirgli che i Padri non sarebbero tornati a Borodol, se lui non ritrattava per iscritto in una lettera quello che aveva proclamato a voce nell’assemblea di Borodol, rendendo vano il tentativo portato avanti da anni da parte dei Padri. Nel frattempo io parto per l’Italia per il mio turno di riposo. La missione rimane chiusa per un mese e riapre solo quando il Vescovo, il Superiore Regionale, il Vicario Diocesano P. Bruno Drì e P Osvaldo tornano a Borodol, dove, nel frattempo, era stata di nuovo convocata l’assemblea dei capi-villaggio. Alla presenza di tutti, il Vescovo legge la lettera, in cui ritratta quello che aveva detto in occasione della inaugurazione della casa. Quella lettera rimane l’unico testo ufficiale da parte dell’autorità ecclesiale su un argomento così scottante. Purtroppo, come si dice, la frittata era già stata fatta e portare avanti quella policy disegnata così pazientemente e con tanti sforzi, d’allora in poi sarebbe diventata una cosa ardua, perché la gente ormai sapeva bene che, sull’argomento, i Padri la pensavano in un modo ed il Vescovo in un altro.
Ho riferito questo squarcio di storia, mai scritto in nessun libro, per arrivare al punto cruciale: la piena solidarietà dimostrata dal Superiore Regionale P. Giacomo Rigali ai suoi confratelli in un momento di grande difficoltà ed insieme il coraggio di fronteggiare il Vescovo su un argomento scottante.
di p. Antonio Germano Das, sx. antoniogermano2@gmail.com