• 29 Marzo 2022

In ricordo di Leonardo Cammarano

Una sua approfondita recensione di un testo delle sorelle Conte, pubblicata nel 1999 sul nostro mensile “La vianova” 

di Leonardo Cammarano

29 marzo 2022

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Presentazione del testo “FRAMMENTI DI PASSATO DI PICCOLE COMUNITA’ di Carmen e Wanda Conte di Torella del Sannio

Parte I

Ancora una volta le sorelle Conte mi onorano invitandomi a presentare una loro opera. io non sono un esperto di storia; ma da molti anni mi occupo di saggistica, di letteratura, di problemi legati al mondo delle idee. Spero che questi interessi mi abbiano conferito una sufficiente capacita’ di giudizio. – Bene; il libro oggi in esame e’ un eccellente saggio di storia locale -, ma dovete aver presente che la storia locale altro non e’ che u a prospettiva particolare della storia generale. In entrambi i casi, lo storico esperto deve comunque individuare – cosa non facile – i dati significativi nelle congerie delle res gestae, degli avvenimenti passati. E poi, se questi avvenimenti e’ difficile interpretarli, difficile e’ anche rievocarne il carattere: per questo secondo ufficio, occorre una vera e propria sensibilità artistica. Ebbene, le sorelle Conte presentano entrambe queste attitudini. leggendo, io ho percorso con l’immaginazione le tracce di conflitti e speranze, avventure e disavventure di questa terra e di questo Comune ai quali sono ormai attaccato da infiniti ricordi. e mi fa molto piacere che il mio paese, ritrovando grazie alle cure delle due autrici il proprio passato, da oggetto di conoscenza si avvii a diventare soggetto di tali conoscenze e quindi, per dirla tutta – a promuoversi in una più degna classe sociologica.

Quando si parla di storia, si dice e si ripete che la storia sta nella mente dello storico quanto più non stia nei fatti indagati. Ed è vero. È questo il ben noto “mistero” delle scienze umane: che, a differenza di quelle esatte, hanno bisogno di partire da un dato di immaginazione proprio per essere oggettive. I tecnici della conoscenza parlano, a questo proposito di “intentio obliqua”. si tratta nientemeno che di quella “memoria dilatata e composta”, o fantasia, di cui parlava G.B. Vico, il figlio più illustre del nostro regno. Per capire la faccenda, basta ricordare le parole di Albert Camus: “noi comprendiamo – egli dice – solo le cose sulle quali abbiamo sognato”. Ed ecco, di tutti ciò, un esempio egregio che traggo proprio dal libro in esame: è una descrizione dell’ambiente torellese:”…Case piccole e modeste, dal sottotetto di cannizze e dal pavimento in terra battuta, che si addossavano le une alle altre in un amplesso circolare, quasi a chiedere protezione, ad invocare pietà alle imponenti mura del castello e della Chiesa che le dominavano.

Aprivano le porte ad ante orizzontali su vicoli scoscesi, sconnessi, stretti, bui, polverosi d’estate e fangosi d’inverno, dove i bimbi, con i sederini che si affacciavano nudi dalle “patelle” (un indumento aperto in basso che lasciava scoperte le parti adibite ai bisogni naturali: anche io ricordo quei bambini rossi di salute, anche se tutti col raffreddore, muniti di tale divisa), i bimbi dicevamo, passavano le loro giornate insieme ai maialini ed alle galline razzolanti. A destra e sinistra degli usci, le immancabili “sterrazze” per togliere il fango dalle scarpe e, infissi nel muro, grossi anelli di ferro o di pietra facevano da ancora agli asini durante le operazioni di carico e scarico delle some. Nella bella stagione, minuscole finestre senza vetri porgevano con civetteria alla strada, dai davanzali di ruvidi assi di legno, garofani e violacciocche…” – Ebbene, leggendo queste righe magistrali un passato a me ben noto mi è balzato innanzi agli occhi della mente con la forza della realtà.

È quasi per individuare un adeguato registro di drammaticità – della quale purtroppo la storia molisana è notevolmente intrisa – che l’opera inizia scegliendo come terminus a quo il terremoto del 1456: che si aggiunge, quasi visivo commento, ad un ben più prolungato sisma: il terremoto cronico della certo iniqua vita feudale, qui esemplato con l’epoca del duca di Termoli Ottavio del Balzo, per lunghi anni titolare del feudo torellese. L’archivio Caracciolo di Torchiarolo reca di tale periodo notizie crudeli. Certo la vita feudale fu dura ovunque, ma qui probabilmente fu più amara che altrove. E in essa emerge, forse, un dato extrastorico e tristemente “umano”: ovunque qualcuno comandi senza controlli adeguati, questo comando tende a corrompersi in prepotenza. Molti studiosi – cito a caso la Scuola di Francoforte con i suoi studi sulla “autorità” o il Betteheim – indagarono e indagano questa “costante storica”. E forse nel Regno (fino all’avvento di Carlo III e delle sue buone intenzioni, di cui il libro parlerà in seguito) tale controllo, reale o vicereale che fosse, mancò più che altrove.

Le cose probabilmente stanno proprio così. Ma vorrei fare due osservazioni. La prima, ovvia, è che la buona notizia fa meno notizia della cattiva: voglio dire, l’opera accenna a tempi assai bui, ma certo tutto non fu sempre così buio. La seconda viene invece fuori, guarda caso, dal pensiero di uno studioso la cui illustre famiglia ebbe legami locali: Alberto Caracciolo, professore di filosofia teoretica all’Università di Genova, morto nel 1990. Il Caracciolo acutamente distingue tra “mala mundi” e “mala in mundo”: vi sono, ciò significa, mali imputabili all’uomo e dunque contenute nella storia; ma vi sono anche mali inerenti alla stessa condizione umana, dunque non eliminabili. Nel Molise imperversarono epidemie e carestie: lue, TBC che devastò la demografia localenell’800, tifo, vaiolo, poliomielite etc.., nonché quelle febbri puerperali che solo nell’800 inoltrato il dott. Semmelweiss avrebbe sconfitto, come narra la celebre tesi di laurea di L.F. Céline.  E questo secondo gruppo di cause non elimina certo la responsabilità del primo, dovuto in gran parte alle colpe feudali; anzi, appaiandosi ad esso, lo aggrava. In conclusione, è forse spiacevole (se non addirittura proibito in sede storiografica) ricorrere ai “mala mundi” per spiegare i “mala in mundo”; ma io penso che si deve tener conto di tutto, ed anche di questo. Ma tutto ciò è ben suggerito proprio dal libro di cui ci occupiamo.

Parte II

Nel 1742, quando Carlo III inaugura il nuovo catasto onciario, proprio per eliminare torti e ingiustizie, le proprietà delle terre torellesi si divideva tra feudo, Chiesa e demanio comunale. La famiglia Mascione, ritenuta la più facoltosa del luogo, possedeva solo 28 tomoli di terra; poco di più possedeva il barone (a titolo burgensatico). Si tratta dunque di una comunità tutt’altro che prospera, ma che tuttavia doveva far fronte ad esiti pecuniari, per uso pubblico e non, di cui le autrici ci porgono uno spaventoso elenco: il focatico, spese comunali, debiti verso il fisco e tra privati, fitti feudali, medico per i bisognosi, trasporto a Napoli delle imposizioni, donativi, natalizi e altro, all’avido feudatario, spese per l’ingresso dal governatore, canciellerato, prediche quaresimali  ed altri oneri per il Clero, spese per il “compassatore” e per l’avvocato, il giurato, il “razionale” (= visore dei conti), per il sindaco, per la festa del protettore San Rocco, e poi censi, terraggi, prestazioni, diritti, decime, etc. Panorama spaventevole. Il Clero ci metteva la sua parte, come s’è visto, donde il detto: “priejte e ‘pcine ‘nze videne mià arrichine”. Ma trovo questo detto incompleto: “riempire” il Barone era certo difficile!

Il prete comunque, oltre al necessario ufficio ecclesiastico, aveva spesso anche compiti di mago: con un suo “libro del comando” (da piccolo, ne ho visto ancora uno) e, in caso di tempesta nei mesi in cui le messi erano esposte, usciva in processione con un gran coltellaccio, per “tagliare le nuvole”. Sul Ciglione, io ho visto anche questo. E non ne rido, perché se ci pensate è tutta poesia. Solo in un caso la poesia è condannabile: quando serve a distogliere le menti dallo spettacolo triste offerto dall’amministrazione della cosa pubblica. Ma allora non è poesia, è quello che oggi si chiama TV. E comunque questo è un altro paio di maniche.

Il secondo capitolo dell’opera costituisce uno studio di demografia che anche storici quantitativi alla Witold Kula, o strutturalisti alla Gérard Delille, leggerebbero con interesse. Nel 1742 a Torella si contavano 698 anime con leggero esubero (4 unità) di femmine, e 129 fuochi. La popolazione era giovane, i due terzi avevano meno di trent’anni: dato allegro solo in apparenza perché esprime, a contrario, un terribile tasso di mortalità. Per alcuni storici, come ad esempio per Elìas de Tejada Spìnola, l’arrivo di Carlo III fu una sorta di gradita restaurazione, e forse ciò è in parte vero (anche se meno vero per il Molise). Ma certo è che il nuovo ordinamento fiscale (che, per ridistribuire il peso sopportato dai vari soggetti, imponeva un testatico di ducati uno ad ogni fuoco) non ebbe i buoni effetti previsti. I fuochi muniti di poche braccia e di figli piccoli dovettero pagare quanto quelli ricchi di sottofuochi e dunque di braccia. Il lavoro era duro e in prima persona: 110 “bracciali” e 60 tra pastori e affini, contro solo due “gualani” (Walter Männer) e uno “zappatore” di professione. I bambini lavoravano già a sette anni. Cospicui il numero e l’entità dei debiti, alcuni contatti anche cento anni prima. La difficoltà di costituire corredi costringeva a matrimoni tardivi. La categoria più agiata era quella dei massari. Le sorelle Conte mostrano indirettamente un fatto, proprio al mondo feudale, che ci piace ricordare. A tale mondo fu propria una distinzione entro la fascia dei maggiorenti. Il feudatario infatti fu molto spesso uomo di scarse lettere e di famiglia sì aristocratica, ma non per questo molto illuminata. Se virtù aveva, erano virtù generate dall’ufficio guerresco della casta. Le qualità di cultura pertenevano piuttosto al Clero, ed a quella parte dei sottoposti che prefigurava le arti poi dette liberali o “professioni”. È questa, in re, la distinzione sociologica che Vilferdo Pareto, l’acuto sociologo oggi trascurato, trova tra preminenza economico-governativa e preminenza culturale: le sue due famose élite di fatto e di merito. Questo è un dato che sarebbe essenziale introdurre una buona volta nelle discipline sociologiche per comprendere a fondo, finalmente, la struttura a più strati propria alle società occidentali storicamente formatesi. C’è un sociologo importante, Stanislao Ossowski, che non raccomanda altro. 

Il nuovo ordinamento di Carlo III chiamava in aiuto anche la chiesa: il concordato del 1741 impose tributi agli enti religiosi e coinvolse le Opere Pie laicali. Si fondavano Cappelle, Confraternite, Monti funerari…A Torella esistevano, intra e extra moenia, nella cinta e fuori muro, varie chiese, chiesette e cappelle poi distrutte (dunque come si vede, l’uso torellese di distruggere chiese non è recente!).

Divertente è la lista delle tariffe ecclesiastiche. Esempi:

  • – per un battesimo, cinque uova.
    – per un matrimonio, una gallina, due candele e poco altro.

Si dice che oggi le nuove chiese sono i partiti politici. Penso che se io me ne andassi a Campobasso con 5 uova e una candela per chiedere qualcosa al mio segretario politico, me ne tornerei con l’impressione che il passato non era tutto da buttar via. E comunque, anche questo è “sentimento della storia”, utile ai laudatores temporis acti.

Del passato, in ogni caso, non si deve mai ridere: si può solo, talvolta, sorriderne. Ed è questo, infatti, il tono intelligente che troviamo nel libro. Di alcuni usi, che oggi sembrano strani o addirittura bislacchi, le condizioni del tempo danno ampia ragione. Ad esempio: perché mai, data la durezza della vita, non si doveva sperare in qualche aiuto di origine misteriosa? Ed ecco, infatti, il frequente ricorso ai cosiddetti magani. Anche io feci a tempo a conoscerne uno o due. Uno se ne stava in agro di Pietracupa, e si presentava ai “clienti” in ampia zimarra di colore blu cielo, costellata di stelle e di mezzelune. Un altro, il colossale “Mattiaccio”, fu a me noto solo per i mirabolanti racconti dei miei zii.

Alla durezza dell’esistenza corrispondeva una mortalità elevata. Le autrici dedicano ampio spazio al problema delle sepolture. Dal libro apprendo che in area cristiana i seppellimenti in luogo urbano iniziarono solo tra i secoli 8° e 9°. Ma da noi, nel 1797, sotto la pressione di ripetute epidemie, il prete don Nicola Ciamarra riesce a trasferire il luogo santo fuori le mura: là dove era la cappelletta mortuaria poi distrutta, non si sa con quanto acume e necessità, nel recente 1995. Seguirono poi vicende varie, l’imperversare di gravi epidemie, la rivendicazione di certe sue proprietà da parte del Torchiarolo che contrastò le prescrizioni murattiane, etc., e infine si giunge all’ubicazione attuale. Il pianto rituale che narra le vicende del defunto, e le bare infantili ricoperte di confetti, sono cose che anch’io ho fatto ancora in tempo a vedere.

Parte III

C’è un capitolo che si occupa del brigantaggio meridionale, i cui fatti e misfatti si distendono più o meno dal 16° al 19° secolo. Il fenomeno fu complesso: gravi squilibri economici; sfiducia nelle leggi e negli amministratori, ingiustizie e anche pregiudizi. Ed è noto che lungo gli anni fu, a volte, anche a servizio dei baroni e dello stesso Re! Ma è anche noto che il rancore contro lo Stato (purtroppo non del tutto ingiustificato) sopravvisse anche in epoca postunitaria si ricordi il malinconico aneddoto riportato da Francesco Jovine: la contadina che, vedendo giungere i Reali Carabinieri, urla: “Fuggite, fuggite, che arriva la Patria!” Insomma, il bandito fu spesso visto come il vendicatore. Le autrici indagano il fenomeno in ampia zona molisana. Alla fine del secolo l’arrivo dei Francesi, che appoggiano la borghesia, peggiora la situazione: nel ’98 Ferdinando invita le Università a sollevarsi contro “il nemico del Re e della Religione”.

Fu così che, disobbedendo alla coscrizione obbligatoria francese, la gente fuggì sulle montagne e presero a formarsi ovunque le bande del Cardinale Ruffo.

Questo affresco sul brigantaggio è avvincente come un romanzo: è una felice sintesi di più narrazioni storiche e fonti documentarie. Qui ricordiamo solo l’episodio che riguardò Torella: il 3 settembre del 1809 una banda di 30 uomini a cavallo invase il paese e se la prese con la famiglia di don Nicola Ciamarra, il sacerdote, zio dell’esattore. Bruciarono sulla piazza i libri contabili, razziarono denari e cavalli dei Ciamarra e dei Mascione. Sembrò questa una giusta vendetta contro “i galantuomini”. Ma in seguito tornarono e taglieggiarono anche la popolazione. E così ancora una volta i Torellesi non ebbero da sperare né di su né di giù: né dal Borbone, né dall’”albero della libertà”.

Il carattere dei tempi, dei luoghi, degli uomini, viene ulteriormente illustrato con una scelta di episodi significativi: come furono ricordati e trasmessi ai posteri eventi quali colossali fulmini o memorabili tempeste; come la difesa dei boschi fu sempre, come sempre, inefficace, donde il plurisecolare dissesto idrogeologico. E ancora una congerie di osservazioni e note: delitti assurdi, incredibili zuffe di paese, la strana storia del “brigante torellese” che fu tal “pe’ sfizie”; come qualmente si producevano le denunce e si componevano le contese, e così via. E infine, a completamento di questa “caratterologia”, alcune significative leggende locali (che etnologi ed antropologi non sdegnerebbero): la bella storia di “Zeppelone” bevitore pantagruelico ma grande gentiluomo; i tentativi ripetuti, a Collalto, di arricchirsi a spese del Demonio; leggende ed usi legati alla persistente credenza nelle streghe. Ed ecco infine i testi di un “dotario” e di un “testamento” antichi: ancora questi utilissimi per intuire usi e costumi.

Quasi come per un voto di speranza, l’opera si chiude con la nota spese – ducati 11, per la precisione – del necessario per allestire a Torella, nel novembre 1860, la prima bandiera italiana.

Insomma: la vecchia prescrizione dell’utile dulci (unire all’istruttività il diletto) qui è seguita a puntino.

Quando, anni fa, presentai la precedente opera delle sorelle Conte, io citai l’opinione d’un autorevole saggista britannico, William Arrowsmith, il quale, con audace rovesciamento di convinzioni, sostiene che non l’astratto futuro, bensì il concreto passato costituisce quel serbatoio di fantasia necessario per comprendere noi stessi e meglio costruire il nostro perenne progetto di vita.

Prima di chiudere, vorrei brevemente approfondire questo interesse concetto. Partirò da quello che per migliaia di anni è stato uno degli interrogativi di fondo dell’umanità: che cosa ci distingue da quelle alter forme di vita che chiamiamo animali? Fu la domanda che duemila anni fa Plinio il Vecchio si pose nella sua Storia naturale e che già i filosofi greci avevano sciolto immaginando che solo l’uomo avesse anima intellettiva. Per secoli, e ancora nel ‘600, forse ancora con Cartesio, questa soluzione fu letta come assenza di anima: tesi che oggi nessuno più può sostenere perché non differenziale. Si pensò a volte che la nota distintiva fosse la capacità di ragionamento: ma ora sappiamo che gli animali “superiori” sono capaci di raziocinio, anche se rozzo. E via via, si è parlato poi di autocoscienza, di senso estetico, di attitudine all’umorismo etc…Finché una risposta solidamente fondata ci è venuta dagli storicisti, sorretti dalle opinioni di un filosofo tedesco commentate da un filosofo spagnolo: l’animale vive seguendo inderogabilmente un programma istintuale prefissato, vive dunque in ritmo circolare, ripetendo i suoi giorni sempre identici, in eterna vicenda così come fa la Natura con le sue stagioni. Ed ecco la differenza: l’uomo ha rotto questo cerchio magico, iniziando così una nuova epoca: quella “cuspidale” della costante inventività, l’epoca inquieta della perenne progettazione. Ed è questa la circostanza che noi, appunto chiamiamo la storia. Da questo punto di vista l’animale, sempre sicuro di sé perché munito di una chiara prescrizione di vita, appare un essere “sano” se confrontato all’uomo che, di fronte all’incertezza del suo futuro, ormai privo di programmi e munito solo di progetti, fa la figura di un “animale malato”. Così, mentre l’animale vive fuori della storia, l’uomo è tutto immerso nel dramma della medesima: egli quasi non sa chi è, che cosa fare, dove dirigersi. Ma questo dubbio è anche la sua ricchezza: perché egli, a differenza dell’animale, può costruirsi un mondo sempre nuovo e diverso. Ecco che in lui spunta la necessità funzionale della fantasia, perché egli deve inventarsi giorno per giorno il proprio futuro. Faber fortunae suae, egli fa la ricchezza della sua miseria.

Ed ecco che qui spuntano di nuovo G.B. Vico e la sua “memoria dilatata e composta”, la definizione che ho messo come venerabile titolo a questo modesto intervento.

In poche parole: è la storia che ci ha fatto e ci fa uomini. Ed è in questo preciso, filosofico senso che il libro delle sorelle Conte si rileva un importante dono a noi Torellesi. La realtà umana, non dobbiamo dimenticarlo, è simile ad un interminabile film di cui il presente è solo un singolo fotogramma. Per capire il romanzo, non ci si può limitare a tener conto di un solo fotogramma; bisogna meditare lo svolgimento. Ed è quello che le sorelle Conte ci invitano, e ci aiutano, a fare.

Due parole vorrei infine dedicare all’amico Enzo Nocera, che con le sue edizioni converge egregiamente a quest’opera di riscoperta delle nostre radici. La sua opera, che esprime un non mai intermesso amore per la sua patria molisana, onora la nostra regione e la fa non seconda tra le altre d’Italia.

di Leonardo Cammarano

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