Borgo e anti-borgo
Tra la retorica del borgo e la contro-retorica anti-borgo, la realtà resta immobile: una terza via per lavorare sull’immaginario delle aree interne
di Fabrizio Ferrari* (da orticalab.it)
6 aprile 2022
Sulle aree interne in questo momento vi è un’attesa messianica. Dopo mezzo secolo almeno di marginalizzazione, sembrano oggi investite di un ruolo cruciale. Non sarà, questo ribaltamento secco di prospettiva, un altro modo per ingabbiarne l’irriducibilità?
Quando si parla di paesi, di piccoli comuni, e più in generale di aree interne, è facile inciampare nella retorica comoda del borgo. Questa retorica è sotto gli occhi di tutti: intercettarla (e demistificarla), data la sua evidenza, è operazione abbastanza semplice.
Vi è però un’altra retorica, più nascosta, meno appariscente, ed è la retorica della contro-retorica, la retorica cioè del compiacimento intellettualistico della negazione, di chi fa del proprio discorso semplicemente la negazione della retorica del borgo, dipendendo di fatto da questa stessa retorica. Questo genere di discorso è meramente reattivo: risolvendosi nell’opposizione alla retorica del borgo, vive, per quanto non lo ammetta, parassitando questa stessa retorica.
A spaventarmi sono i discorsi unici. Non si dovrebbe scegliere tra la retorica del borgo o la contro-retorica anti-borgo: la questione e il problema, come sempre, è moltiplicare i discorsi, farli convivere. Saper scorgere una parte di verità anche laddove pensiamo non ve ne sia per costruire una verità più grande e inclusiva, che eserciti effettivamente sulla realtà un’azione trasformativa. Tesi e antitesi (borgo e anti-borgo) finché restano bloccate nella loro contrapposizione frontale lasciano la realtà immobile, immutata.
Il discorso – quasi sempre snobistico, accademico, proveniente da un’élite intellettuale – che intende cancellare la retorica del “borgo” è molto più dannoso e pericoloso del discorso che l’ha introdotta e che la sostiene. La sfida, sempre, è evitare l’approccio che io definisco ortopedico, ove vi è sempre un centro e un margine, un discorso buono e uno cattivo, in favore della moltiplicazione infinita dei discorsi, delle pratiche, degli usi.
Normare è spirito di serietà e corrisponde sempre, al di là delle apparenze, a interessi dati e conservativi. In questo caso, è la retorica del borgo che subisce la marginalizzazione nell’orizzonte del discorso. La sfida, allora – che riguarda anche altri termini allo stesso modo sempre più soggetti a una pressione di periferizzazione come restanza, resilienza ecc… – non è cancellarli od opporvisi all’insegna di un dualismo rigido, è piuttosto inserirli in un discorso complesso, polisemico, aperto.
A un discorso che si vuole esso stesso mobile, aereo, attraversato dalla contraddizione, i difensori della retorica anti-borgo oppongono, al di là delle loro intenzioni, un discorso-sostanza che sorveglia e amministra la realtà, un discorso ancora una volta accentratore.
Sintetizzando la questione, a un meta-discorso ortopedico che, come detto, distingue tra buoni discorsi e cattivi discorsi, li separa e contrappone, ovvero a un approccio sostanzialmente normativo, tipicamente accademico, moralista, interessato e conservatore, bisognerebbe assolutamente preferire un meta-discorso favorevole alla moltiplicazione e all’integrazione dei discorsi, dove, sia detto per inciso, sono anche da includere i discorsi diretti che provengono da coloro che vivono nelle aree interne, che non devono essere considerati né discorsi minori né, con rischio complementare, gli unici possibili (il fuori, l’esterno è una dimensione fondamentale per il futuro dei paesi).
Un esempio lampante di approccio ortopedico lo si può facilmente verificare in relazione all’iniziativa della vendita delle case a 1€, ormai pregiudizialmente ritenuta inadeguata a promuovere e favorire, in tutti i contesti e al di là delle loro differenze, processi di sviluppo locale.
Una simile posizione chiude alla possibilità di riconoscere attraverso il lavoro empirico, caso per caso, se non vi siano anche contesti nei quali, per il darsi di condizioni specifiche, questa stessa iniziativa non abbia prodotto invece risultati significativi. La generalizzazione, se non vale in positivo (un’esperienza che funziona qui non è detto che funzioni ovunque), non dovrebbe valere allo stesso modo in negativo: un’esperienza che non funziona qui non è detto che sia intrinsecamente fallimentare. E ciò dovrebbe valere tanto più quando si parla di borghi, piccoli comuni, e in generale di aree interne, dove è nota la dipendenza dei processi di sviluppo locale da variabili uniche e irripetibili intrinsecamente legate alle specificità dei singoli contesti.
Un modello teorico ortopedico è costitutivamente chiuso nei confronti di quella vitalità che sfugge allo schema dicotomico e che la forza stessa di questi modelli rischia di soffocare. Bisogna invece essere pronti a riconoscere che in determinati casi e sotto certe condizioni un’iniziativa possa produrre effetti molto diversi da quelli che ci si sarebbe aspettati. Escludere questa possibilità è proprio dei modelli a causalità lineare tipici dell’accademia o dei progettisti seriali ed è segnale di una volontà di controllo e di potere che in quei modelli si esprime.
Sorprende che questo modello ortopedico sia molto spesso implicitamente adottato anche da coloro che, almeno a parole, sostengono il paradigma di uno sviluppo community/place based. Non vi è nulla infatti di più distante da un simile modello ortopedico che una visione dello sviluppo centrata sulle diverse comunità e sulla differenza dei singoli contesti locali.
I presupposti di uno sviluppo community e place based, infatti, non consistono nel particolarizzare orizzonti di intervento e di discorso generali, non risiedono nell’adattare l’universale al contesto specifico, piuttosto e al contrario una simile visione dello sviluppo afferma che nessun orizzonte di intervento e di discorso generale possa avere un’applicazione universale per quanto contestualizzata, afferma quindi che bisogna essere pronti al gesto di umiltà e di forza di sospendere ogni schema universale per generare, al suo posto, orizzonti di intervento e di discorso ogni volta diversi, che sappiano ricombinare i propri elementi con formule sempre differenti, perché solo a queste condizioni è possibile fare spazio e fare emergere quanto di unico e di irripetibile vi è nei diversi contesti locali. È quello che la sociologia territorialista intende quando parla di stili di sviluppo propri dei singoli territori.
Orizzonti di intervento e di discorso generali si nutrono, oggi, di una ragione prettamente economica. Orizzonti di intervento e di discorso multipli e differenziati respingono invece l’univocità unilaterale della ragione economica e valorizzano qualcosa che possiamo chiamare immaginario.
Sappiamo tutti quanto nelle aree interne le infrastrutture siano carenti, il mercato del lavoro contratto, i servizi presenti a macchia di leopardo o del tutto assenti. Per il rilancio vero dei paesi, dei piccoli comuni, di ciò che complessivamente chiamiamo aree interne, è certamente necessario lavorare su tutto questo, sulla dotazione di servizi e sulla creazione di opportunità materiali, concrete. Necessario, certamente, ma non sufficiente.
Se infatti riteniamo questo impegno sufficiente stiamo semplicemente tentando di includere paesi, piccoli comuni, aree interne all’interno del modello economico e culturale dato. Stiamo semplicemente cercando di far loro un po’ più di spazio, ma in uno scenario noto. Non è questa la risposta di cui vi è bisogno: ciò che ha segnato la sconfitta delle aree marginali del Paese non può essere oggi ciò che le salva.
La vera sfida lanciata dalle aree interne non è la richiesta di accesso a quel mondo che le ha nel tempo marginalizzate, ma è il cambiamento di questo mondo, la sua messa in questione, e solo in ciò può risiedere per loro una qualche speranza di miglioramento e sviluppo.
La manifestazione non filtrata della loro forza antagonistica è l’unica via – una terza via – per una integrazione efficace e trasformativa, non nel mondo dato ma in funzione di un mondo venturo; altrimenti la loro inclusione nel mondo dato continuerà a mantenere forme più o meno latenti di subalternità e di ancillarità cui già oggi assistiamo nell’interpretazione e nella realtà del paese come pausa della città, come suo sfogatoio, come camera di compensazione dei suoi guasti, come protezione temporanea dai suoi mali di cui il paese è l’esatto rinculo.
Il paese è di fatto concepito, nella sua antitesi secca alla città, come luogo di sversamento di tutti i materiali reflui dell’inquinata vita cittadina (e del suo modello economico e culturale): l’urbanesimo meccanizzante si riscatta nell’idillio naturale. Con uno scopo: non ripensare radicalmente la città e il modello economico e culturale di cui è espressione, bensì allungarne la durata, stirarne il più possibile il tempo di vita. La questione fondamentale delle “aree interne” perde così la sua forza mobilitante, la sua capacità di smuovere visioni e prassi consolidate, finendo per diventare argomento strumentale (ideologico) di conferma degli assetti prevalenti, dominanti.
Il discorso sul paese, sul piccolo comune, in generale sulle aree interne è sempre al contempo un discorso sulla città. Non basta però recuperare e mettere a tema questa relazione, peraltro implicita e non resecabile. È necessario invece evitare che il primo discorso (quello sulle aree interne), al di là di tutte le apparenze, resti asservito alle esigenze di riproduzione del secondo (quello sulla città), come accade sia nella retorica del borgo che nella contro-retorica dell’anti-borgo. L’idealizzazione del borgo non è un’invenzione. È semplicemente l’ottica di chi nei paesi non ci vive. E dunque, dentro a questa idealizzazione – la cui percezione può essere reale – opera già un punto di vista, il punto di vista del centro. In tal modo il paese resta ancora in funzione del centro, subordinato alle sue necessità di riproduzione.
(*Fabrizio Ferreri è dottore di ricerca in Filosofia, Università Statale di Milano, e in Sociologia dell’innovazione e dello sviluppo locale, Università Kore di Enna. È socio AIS (Associazione Italiana di Sociologia – Sezione Sociologia del Territorio), della Società dei Territorialisti e dell’Associazione Riabitare l’Italia. Fa parte della Rete Nazionale di Giovani Ricercatori per le Aree Interne promossa dal DAStU del Politecnico di Milano).
(Foto: Illustrazione di Martina Pellecchia)
di Fabrizio Ferrari* (da orticalab.it)