Rilancio delle aree interne
La rigenerazione culturale che produce coscienza di luogo: una strategia locale e molecolare per ripensare le aree interne
di Fabrizio Ferreri (da orticalab.it)
13 aprile 2022
La seconda parte dell’approfondimento di Fabrizio Ferreri, sociologo territorialista, apre ad una nuova riflessione sull’immaginario delle aree interne. Dopo le considerazioni su discorsi unici e generalizzazioni, arriviamo alla necessità di una relazione circolare, di pratiche realmente trasformative per riconnettere luoghi e coscienze: community manager, partecipazione, linguaggio aziendalista, tutti modelli da decostruire per un diverso equilibrio.
La prima parte dell’intervento – pubblicata il 6 aprile, è possibile leggerla QUI – si è chiusa ponendo la necessità, per il rilancio delle aree interne, di lavorare sull’immaginario (sugli immaginari).
È necessario cioè lavorare su una dimensione più profonda e immateriale che interroga i valori e le rappresentazioni dominanti, quei valori e quelle rappresentazioni che oggi assegnano alla città una centralità che va ben oltre i servizi e le opportunità che essa offre e che determinano inevitabilmente la perdita di attrattività verso tutto ciò che città non è.
Lavorare sull’immaginario, dal mio punto di vista, è uno dei sensi fondamentali di un’espressione oggi tanto diffusa di cui però spesso sfuggono i contorni; lavorare sull’immaginario significa esattamente rigenerazione culturale, dove la cultura non è un settore tra gli altri, ma è l’elemento generativo di quella coscienza di luogo che produce riconoscimento del luogo, riconoscimento di sé nel luogo e nelle tante comunità che lo abitano. Generando riconoscimento, in altre parole, l’immaginario riattiva quella coscienza di luogo indispensabile per produrre radicamento. L’immaginario è un defibrillatore necessario: rigenera orizzonti di senso, (individuali ma) non particolaristici, in connessione con i giacimenti di valore del luogo, ed è quindi la radice indispensabile per nuovi radicamenti (“nuovi” non solo in quanto riferiti a nuovi abitanti, “nuovi” invece soprattutto rispetto a chi già vive nei paesi ma se ne sente distante).
Le aree interne certamente muoiono per le infrastrutture carenti, per un mercato del lavoro contratto, per i servizi assenti, ma sotto tutto questo, la terra su cui tutto questo dovrebbe innestarsi è arida, secca: la coscienza di luogo nei vari territori del margine è quasi del tutto spenta. Si fa enorme fatica a ricostruirla e ad alimentarla. Si tratta di un black-out terribile, su cui ancora non c’è sufficiente attenzione. Senza una forte e salda coscienza di luogo potremmo anche portare in queste aree del Paese il lavoro, i servizi e le infrastrutture, ma non attecchiranno, non produrranno nulla, saranno magnifiche operazioni che aggiungeranno nulla a nulla, e a costi altissimi. Un borgo con il wi-fi e con maggiori e più efficienti servizi essenziali è certamente un borgo più vivibile ma non è per questo automaticamente un borgo più desiderato. Una buona infrastruttura senza anima continua a girare a vuoto.
Lavorare sull’immaginario non significa per le aree interne uscire immediatamente dalla condizione di minorità (su questo livello non si può prescindere dall’azione politica); significa piuttosto imparare a reclamare consapevolmente il proprio diritto a uscirne. Lavorare sull’immaginario ha un valore propedeutico decisivo: significa leggere la propria condizione di ancillarità e subordinazione non come un destino; implica quindi che se ne comprendano le cause, le ragioni (storiche, profonde) e il rapporto di stringente connessione con un determinato modello economico e culturale di sviluppo. È un processo, nella sua pars destruens, di demistificazione e insieme, nella sua pars costruens, di presa di coscienza attiva.
Senza questo lavoro preliminare sull’immaginario continueremo a leggere e a intervenire sulle aree interne adottando lo stesso modello culturale (ed economico) che le ha emarginate, espulse, svuotate.
Non servono azioni compensative, riparatorie o additive che si collocano ancora dentro il modello economico e culturale dominante, è bensì necessario elaborare vie terze, capaci di scardinare la logica centro-periferia, capaci di superare – come dicevamo nella prima parte – ogni schematismo binario: città vs paese, urbanità vs ruralità, industria vs agricoltura, turismo vs abitabilità, ecc…
Se non si tiene in considerazione questa dimensione dell’immaginario le aree interne continueranno a essere surrettiziamente interpretate alla luce di un paradigma aziendalistico come un’azienda fallita, pensando di poter mettere a posto il paese come si metterebbe a posto un’azienda che non funziona. Dal momento però che il paese non è un’azienda, questo genere di approccio non ha alcun effetto anzi, certamente, aggrava la situazione.
All’interno di questo paradigma si colloca ad esempio la figura del community manager, una sorta di mental-coach d’azienda. Utilizzo come esempio questa figura perché dietro di essa si scorge l’idea di poter in qualche modo ingegnerizzare la vita complessa di un luogo, di una comunità. Il paradigma aziendalistico è sempre riduzionistico: un luogo (una comunità) “gestita” o “da gestire” delinea luoghi (comunità) protesizzati; un simile paradigma lavora non sul luogo e sulla comunità reale ma su una loro arbitraria e interessata proiezione artificiale.
La sfida però, come detto nella prima parte dell’intervento, non è escludere a-priori dall’orizzonte d’intervento una figura come quella del community manager, la sfida bensì, ancora una volta, è moltiplicare i discorsi e le soluzioni, rinunziare alle categorie binarie, mettere da parte un approccio ortopedico e normativo, in favore di un meta-discorso che accolga una pluralità di termini/discorsi/soluzioni alla ricerca di equilibri sempre diversi, secondo modi della convivenza che consentano ai diversi discorsi/soluzioni allo stesso tempo di limitarsi e di accrescersi reciprocamente.
Si prenda come esempio ulteriore il tema della partecipazione, tanto sbandierato quando si parla di aree interne e certamente del tutto necessario nonostante la riduzione che subisce nelle pratiche reali.
Partecipare, purtroppo, ormai e sempre di più, è nel sociale ciò che consumare è sul mercato.
Partecipare vuol dire oggi, sempre più, team building. Partecipare è diventata un’altra delle tante procedure. E invece “partecipare”, se ha senso, intende proprio identificare quello spazio di sospensione della procedura e del protocollo. La partecipazione può essere favorita in qualche modo – per depurazione delle strutture che la ingombrano e ostacolano – ma poi va lasciata libera, libera di esserci come di non esserci. La partecipazione non può essere programmata. La partecipazione sta al programma come un evento reale sta al suo cartellone pubblicitario. La partecipazione programmata è una finzione, è un calcolo morto. Partecipare, se è vero partecipare, implica anche che si possa non partecipare, che ci si possa defilare, che si possa entrare e uscire, vi è cioè una dimensione di negatività e di aleatorietà che il partecipare di oggi non contempla. Noi abbiamo fatto della partecipazione un’operazione particolare, precisa, regolata. Il partecipare di oggi dispiace dirlo ma in fondo è una dimensione del funzionare. È un altro tecnicismo.
Quel poco di partecipazione reale che i “processi partecipativi” generano, accade quasi sempre loro malgrado.
Contemporaneamente a questa drastica riduzione della sua fenomenologia, la partecipazione è sempre più interpretata come attivazione di reti. Ora, però, l’attivazione di reti non equivale e non è ancora partecipazione, è forse la dimensione formalizzabile che più gli si avvicina, ma l’attivazione di reti continua a premiare i soggetti e le realtà più mature, quelle che già partecipano e che hanno un posto all’interno del sistema locale; continuano così a restare esclusi proprio coloro di cui invece si dovrebbe ricercare maggiormente la partecipazione, ovvero coloro che non sono abituati e pronti alla partecipazione, le fasce della popolazione deboli e ai margini (spesso i giovani, gli anziani, quelli con un livello culturale più basso).
Quando sulla fondamentale e indispensabile richiesta di partecipazione piomba il paradigma aziendalistico, la partecipazione diventa “attivazione di reti”. Un altro pensiero e un’altra prassi servirebbero per una reale partecipazione, occorrerebbe innanzitutto considerare la comunità non come qualcosa che si possa ingegnerizzare.
Vi è bisogno di ripensare quei luoghi che un determinato modello economico e culturale ha posto al margine, abbandonato o ridotto a riserve da sfruttare. Un simile ripensamento non può essere operato in astratto: impegna a una strategia locale e molecolare, punto per punto, ognuno con le proprie specificità, nel segno di una miriade di pratiche singolari, contestuali, non accentrate, mosse da motivazioni immanenti e non da programmi centralizzati astratti e globali, dove l’impegno situato (place-based) configura alternative, produce nuovi possibili, moltiplica e interseca tra di loro le traiettorie locali.
Lavorare sull’immaginario è tutto questo.
Riferendo di un caso particolare, dal 2019 a San Mauro Castelverde, paese di montagna di poco più di mille abitanti in provincia di Palermo, recuperando dopo dodici anni di sospensione lo storico premio di poesia edita Paolo Prestigiacomo, abbiamo cominciato a lavorare sulla figura di Paolo Prestigiacomo, poeta e scrittore maurino, allievo e amico di Palazzeschi, tra le figure più significative e meno conosciute del secondo Novecento letterario italiano.
L’opera letteraria di Prestigiacomo è diventata l’occasione e lo strumento per leggere il territorio con occhi nuovi, per pensarsi da una prospettiva diversa, per guardarsi da fuori ma non attraverso un occhio estraneo.
Il lavoro sulla figura di Paolo Prestigiacomo è diventato in questo modo lo spazio aperto di una comunione, di un mettere e mettersi in comune: leva di auto-coscienza e di auto-costruzione (di ri-costruzione) di una comunità.
Bisogna ripartire da questa relazione circolare: tanto le pratiche innovative producono nuovo immaginario, quanto un immaginario disintossicato è premessa indispensabile per nuove pratiche, per pratiche realmente trasformative. Oggi abbiamo, da una parte, luoghi senza coscienza, incubatori di tossicità a tutti i livelli e, dall’altra, coscienze disperse, disorientate, del tutto disincarnate, senza luoghi.
Crediamo sia indispensabile impegnarsi nella generazione di nuovi immaginari, radicati, creativi, alternativi (e non semplicemente difensivi e antagonistici) proprio per riconnettere luoghi e coscienza, per liberare quella moltitudine di coscienze di luogo che da sempre costituisce l’anima più profonda del nostro Paese.
*Fabrizio Ferreri è dottore di ricerca in Filosofia, Università Statale di Milano, e in Sociologia dell’innovazione e dello sviluppo locale, Università Kore di Enna. È socio AIS (Associazione Italiana di Sociologia – Sezione Sociologia del Territorio), della Società dei Territorialisti e dell’Associazione Riabitare l’Italia. Fa parte della Rete Nazionale di Giovani Ricercatori per le Aree Interne promossa dal DAStU del Politecnico di Milano.
(Illustrazione in copertina: Martina Pellecchia)
di Fabrizio Ferreri (da orticalab.it)