“Compagne di Cammino”
Da un libro di ieri le analogie con gli orrori della guerra di oggi
di Angela Seracchioli – fb
15 aprile 2022
Sono contenta che Papa Francesco non abbia ceduto al ricatto e che domani sera due ragazze, due infermiere che qui vivono e lavorano, una russa e una ucraina, portino le croci lungo il percorso doloroso del Venerdì Santo nel Colosseo e leggano le meditazioni. Due donne…e alle 14.00 Papa Francesco verrà intervistato a Rai 1 da un’altra donna…e credo che tutto ciò non sia casuale!
E così mi è venuto in mente un capitoletto del mio libro “Compagne di Cammino”…io non ricordo mai quello che scrivo e così me lo sono riletto e…centra tanto con quello che sta avvenendo nel mondo ora, centra tanto con tutti Venerdì Santo di tutti i giorni dell’umanità, centra tanto con le mamme dei soldati, degli innocenti da un lato e dall’altro uccisi in tutte le guerre, centra tanto con chi ha la vita devastata e la propria maternità distrutta…penso a loro, a tutte le mamme ai piedi di milioni di croci in questa tortura autoinflitta di una umanità che non capisce, che non ha rispetto per la vita, che si uccide per mancanza d’Amore
Mamme
“Pronto..Tata, sì stiamo bene, è tutto bellissimo, sì fa caldo…no ancora 4 giorni a Gerusalemme…”
Marisa fa tutto camminando: mangia, prega e, soprattutto, telefona ai suoi ragazzi. Ha messo nel budget del Cammino queste telefonate quotidiane a volte anche lunghe, io mi limito ad sms all’amico caro scritti nelle soste e a posts nel blog quando trovo un computer e la connessione.
Marisa adora i suoi figli, li giustifica in tutto, si preoccupa per la Tata che ha tante potenzialità che non mette in luce, così come vuole un bene immenso alla figlia in affido che per tanto tempo è stata figlia sua e che lo resta, per sempre. I nostri passi pellegrini sono spesso accompagnati da discorsi su di loro in cui io mi devo a volte fermare perché “io non sono mamma”. Questa frase è sempre, e con tutte le donne-mamme che conosco, una sorta di diga invalicabile, non conta nulla dire che, come donna, so geneticamente cosa vuole dire la maternità che nella mia vita sì è mancata, ma che comunque conosco nelle cellule e che ho sperimentato in altri modi. Noi, che non abbiamo avuto figli, prima o poi questa “diga” la incontriamo e ci si può solo arrestare e lasciare che anche la miglior amica tiri su le paratie.
Ma ora stiamo camminando nella terra di una ragazzina di Nazareth.
Quanto ho pensato a Maria in Palestina!
Fra le case distrutte dai buldozers dei pastori di oggi, nello sguardo della donna al campo profughi di Ramallah mentre mi raccontava del suo primogenito in prigione, non si sa dove, non si sa perché. Nei fagotti di quelle che andavano alle prigioni a trovare i figli e anche dietro la giovinezza dei ragazzi ai check-points c’era sempre l’immagine di una mamma perché poi la vita si riduce a questo, agli affetti primari, ai bisogni primari, alla vita di tutti i giorni non agli imperi, non alle masse ma al singolo, al suo piccolo universale mondo ripetuto per i miliardi di esseri umani che fanno l’umanità.
Maria ragazzina con il pancione issata su un asinello trainato dal dolce Giuseppe. Un viaggio assurdo da Nazareth a Betlemme, quindici giorni di cammino per essere schedati e quel “censimento” tante volte ascoltato nelle Messe di Natale, improvvisamente mi è apparso per quello che era, il contare il popolo, l’incasellarlo nei luoghi, sul territorio parte di un impero. Perché?
Così sto qui a domandarmi che cosa se ne faranno poi degli imperi i costruttori degli stessi, cosa se ne farà Israele di una terra cementificata dagli insediamenti quando non ci saranno più quelli che la coltivano con amore, che terzo tempio costruiranno sulla montagna sacra quando l’avranno vinta sulle moschee. Saranno più felici quando la “Terra promessa” sarà tutta loro?
Mi fanno paura le donne soldato, è qualcosa contro natura, ammetto che una donna per difendere i figli possa giungere a gesti estremi, ma non concepisco che si obblighino le ragazze ad indossare tute mimetiche e ad imbracciare mitragliatrici. Finisce sempre che per dimostrare la propria capacità di ricoprire un ruolo maschile la donna diventi eccessiva e, in questo caso, si incattivisca divenendo più realista del re. Non riesco a dimenticare lo sguardo arrogante delle ragazzette ai check-points e quel misto di rabbia e tenerezza che mi facevano e oggi penso anche alle loro mamme, all’angoscia che devono provare pensando i propri figli in prima linea.
Sì, si può costruire uno stato sulla paura, si può andare in gita scolastica seguiti da una guardia armata, si può allo stesso modo andare a pregare al muro del pianto ma si è poi più felici, più sereni, più appagati dalla vita?
Il Vangelo di ieri parlava di “pietre vive” e mentre ascoltavo, in sovrimpressione, vedevo le “pietre morte” i resti di un Tempio che un impero distrusse; il muro di pannelli prefabbricati alti nove metri che un nuovo impero costruisce per dividere; le macerie della casa distrutta da poche ore nel villaggetto di pastori a pochi chilometri da Hebron. Poi gli occhi dolci di quella mamma circondata da un nugolo di piccolini che mi offriva un the lì, in piedi, di fronte ai materassi ammonticchiati, alle quattro cose che fino alla notte prima erano la sua casa; un cubetto di cemento in una valletta pietrosa il cui unico difetto era di essere dove i coloni hanno deciso di allargare il loro insediamento.
Dei “nostri imperi” non resteranno nemmeno belle rovine, nessuno scaverà la terra scoprendo archi di trionfo sotto cui i vinti sono passati, rimarrà una massa di cemento e ferro senza memoria, inquinante e grigia intrisa di dolore dove la memoria dei vinti di oggi non avrà nemmeno la dignità di un fregio.
Maria, la madre che soffre per il figlio.
Una notte, una sola, prima di camminare verso Betlemme, dormiamo all’Ecce Homo, nell’accoglienza di suore francesi costruita sopra le rovine del luogo dove Gesù fu sbeffeggiato, incoronato di spine in quel “gioco del re” che facevano per irridere i condannati. Abbiamo visitato le rovine e a tutte e due hanno fatto grande impressione, quel pavimento pare trattenere le impronte della sofferenza.
L’accoglienza è bella, così nel cuore della Gerusalemme antica, tanti piani di camere e sale e, sul tetto, un intrecciarsi di terrazze, a due passi dalla cupola dorata della Roccia, attorno una miriade di torri, minareti terrazzamenti da scena da presepe napoletano.
Andiamo a letto presto, domani camminiamo di nuovo dopo essere state una decina di giorni nella Palestina a nord di Gerusalemme. Marisa si addormenta presto e io rimango da sola, seduta sul cuscino, gli occhi fissi nel buio. Quel pavimento là sotto, non riesco a distaccare la mente da quel pavimento, e vengo presa da questa colonna di dolore che pare salire come un fumo, insinuarsi piano dopo piano, e raggiungermi da quel pozzo di sofferenza laggiù; un’aria pesante intrisa dell’odore di sangue rappreso.
Sto seduta con il figlio morto fra le braccia, lì sono veramente madre, piango tutte le mie lacrime in silenzio, il respiro lento e tranquillo dell’amica non può essere disturbato, i suoi dolori, la sua di sofferenza sono avvolti dal sonno. Piango per tutti i figli morti, per quell’ingiustizia del giovane che muore prima di chi lo ha generato, capisco Maria, sono in qualche modo Lei, sono tutte le madri del mondo. E’ solo dopo molto che la stanchezza ha la meglio e, finalmente, dormo. La mattina dopo Marisa mi racconta di sogni difficili pieni di dolore. Lasciamo questo bel posto senza rimpianti, in noi un prepotente desiderio di essere ancora pellegrine, la nostra meta non è Gerusalemme, lo capiamo ora incamminandoci nei vicoli ancora poco popolati, siamo venute per una nascita, Betlemme di là dal muro ci attende.
di Angela Seracchioli – fb