Un parco sostenibile
Se c’è una ricca diversità biologica, fauna e flora di “pregio”, tanto meglio, altrimenti se ne può favorire la ricostituzione con azioni di restauro ambientale
di Francesco Manfredi-Selvaggi
9 settembre 2022
Non è un paradosso, un’area protetta non produce inquinamento e solo che occorre renderla capace di accettare, fino ad un certo punto ovviamente, se non “sostenere” le attività antropiche compatibili. La sostenibilità è una scienza sviluppatasi di recente in grado di indicare le politiche per far convivere uomo e natura.
Il parco non è un “ritorno al passato”, bensì un “ritorno al futuro”. È un’affermazione ad effetto che, però, condensa bene, in poche parole, il significato da attribuirsi a tale nuova entità. Con altre parole si può dire che il parco, come lo intendiamo oggi, porta con sé non un’idea pre-moderna di gestione del territorio, ma, al contrario, post-moderna, neppure semplicemente moderna.
Il parco è frutto della società contemporanea della quale segue la continua evoluzione: se all’inizio, i parchi nazionali delle origini erano stati pensati esclusivamente per tutelare un contesto ambientale, per prevenire la sua alterazione, azione meritoria che è la prima fase della vita di ogni parco, e che rimarrà la mission fondamentale pure in seguito, i passi ulteriori saranno in direzione della ricerca della sostenibilità per arrivare, l’obiettivo avanzato, ad una convivenza pacifica tra uomo e natura.
Detto in modo migliore è compito di un parco quello della conservazione delle valenze naturalistiche, il che, comunque, non esclude che, non valicando “i limiti dello sviluppo”, non si debba cercare una ricomposizione tra le esigenze umane e la componente naturale: ciò, cioè tale equilibrio, non è dato una volta per tutte, non può essere altro che quello delle epoche arcaiche perché possono esistere pure formule innovative.
Forme di coesistenza ancora più attenta che nel passato all’integrità dell’ecosistema e a questo proposito si fa notare, uno, che il pascolamento “intensivo”, praticato nel mondo pastorale di un tempo, provoca, per via delle feci degli animali, l’inquinamento delle acque sotterranee, sicuramente in prossimità delle cosiddette falde sospese (esempio, Capodacqua), tema vitale in una montagna carsica qual è il Matese, e, due, che il disboscamento selvaggio, effettuato sui versanti matesini, per la fame di terra, a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, non giova, di certo, al pianeta, le piante avendo la funzione di catturare l’anidride carbonica.
Lo si sarebbe dovuto dire prima, lo si dice ora: i parchi sono importanti anche per i “servizi ecosistemici” che forniscono, nel caso del Matese la salvaguardia delle risorse idriche e la copertura forestale che contribuisce alla lotta contro i cambiamenti climatici; non ci si può fermare qui a proposito dei servigi che un parco offre, se non dopo aver fatto notare che l’estensione del parco, financo la creazione stessa di un parco, non è in funzione solo della difesa della biodiversità in quanto ha un peso pure il bisogno di raggiungere il, ora, 17% di superficie continentale a parco, traguardo fissato dall’Unione Europea.
In definitiva, se in un parco c’è una ricca diversità biologica, fauna e flora di “pregio”, tanto meglio, altrimenti se ne può favorire la ricostituzione con azioni di restauro ambientale, ciò che conta è assicurare alla Terra un “polmone verde”. La modernità del parco va di pari passo con la modernità, se così si può dire della scienza. Una delle discipline scientifiche più recenti è quella concernente la sostenibilità ambientale sulla quale fa affidamento l’Unesco per garantire la sopravvivenza in piena forma delle due Riserve della Biodiversità che questo organismo delle Nazioni Unite ha istituito nell’alto Molise, trasformando in Biological Reserve (BR) le aree MAB (Man and Biosphere), un precedente programma lanciato dalla stessa costola dell’ONU, di Collemeluccio e di Montedimezzo.
A dire il vero, non è proprio così e per provare a spiegare perché, occorre fare un passo indietro, tornare proprio al MAB. Si tratta di aree lasciate alla libera cioè spontanea, evoluzione della struttura ecologica, il tutto è finalizzato allo studio del materiale genetico che contengono (senza che si rinnova niente della materia vivente, seppure in stato di necrosi, esemplificando anche gli alberi morti e ciò distingue le aree MAB dalle “ordinarie” aree protette in cui si effettuano normalmente, non solo di fronte a situazioni di degrado, interventi di miglioramento, estremizzando, dell’ambiente).
La finalità è innanzitutto scientifica, rimanendo sullo sfondo la ricaduta in termini di protezione della natura con il coinvolgimento di botanici, zoologi e via dicendo. Sempre gli scienziati, adesso di un diverso campo disciplinare, quello della sostenibilità, sono i protagonisti (l’Università insieme agli Enti locali e alla Regione) dell’iniziativa di delimitazione di un ampio comprensorio denominato Assomab comprendente 7 comuni altomolisani e contenente ambedue le BR in cui sperimentare un modello di sviluppo sostenibile (anche questo è entrato nei dizionari da poco) avente a cuore la preservazione dei biotopi riconosciuti Riserve, esportabile, in quanto replicabile nei Paesi sottosviluppati (è tra i fini statutari dell’Unesco) in cui vi siano analoghe condizioni ambientali.
È da ricordare che le Riserve della Biodiversità sono rappresentative dei più significativi ecosistemi del mondo, rinvenibili in diverse parti del globo, come a dire da un lato di elevata pregevolezza e dall’altro lato ricorrenti a livello planetario. I risultati di tale sperimentazione appena avviata saranno difficilmente applicabili al Matese per ragioni geografiche e, invece, l’apparato concettuale che c’è dietro può essere trasferibile nella gestione del parco del massiccio matesino.
Il rinnovamento della scienza con l’entrata in campo di questa ultimissima branca che è la sostenibilità porta, in definitiva, ad un rinnovamento della concezione dei parchi e ciò fa venire in mente quanto sta avvenendo nella civiltà odierna in pressoché tutti i settori a traino dell’evoluzione scientifica la quale è sempre più accelerata, si pensi all’informatica o alla medicina. Tale riflessione ci ha spinto nell’incipit a vagheggiare un parco futuribile. Alle produzioni agricole tipiche, è evidente che ci si riferisce a quelle d’altura, si perverrà attraverso metodi di coltivazione e di trattamento dei prodotti fortemente tecnologizzati e che, in aggiunta, puntino molto sul risparmio d’acqua e di energia.
All’identica maniera all’orizzonte vi è che la conduzione dell’alpeggio sarà favorita, mettiamo, dall’approntamento di capanne temporanee dotate di qualche confort moderno. Bisogna impegnarsi seriamente per aggiornare queste attività economiche dotandole dei mezzi materiali e immateriali in grado di modernizzarle senza che, in nessun modo, vengano deturpati i luoghi tramite la realizzazione di stradelli, di costruzioni stabili e così via se si vuole che l’agricoltura e la zootecnia continuino a essere praticate in altitudine; è interesse di tutti che sia così, dal ristoratore che propone carni di bestie allevate in quota all’Ente parco perché i pastori e gli agricoltori contribuiscono alla manutenzione, praticandolo, del territorio, alle differenti curve di livello.
Ci siamo soffermati dando uno sguardo al domani su questi due comparti dell’economia del posto in quanto i maggiormente organici ad un parco, tralasciando i modernissimi impianti da sci, che invece sono poco organici, per i quali il futuro, stiamo discutendo del futuro, non è roseo per il diminuire delle precipitazioni nevose.
di Francesco Manfredi-Selvaggi