Parchi del Matese e d’Abruzzo, gemelli eterozigoti
I due Parchi sono confinanti, entrambi statali e montani, ma le problematiche di conservazione che li investono sono assai differenti
di Francesco Manfredi-Selvaggi
16 settembre 2022
Sono addirittura confinanti, entrambi statali e montani, ma le problematiche di conservazione che li investono sono assai differenti. Per quello matesino Campitello è un’autentica spina nel fianco o meglio nel petto perché situata proprio nel cuore del complesso montuoso, dove vi è il paesaggio più ricco, la maggiore conca carsica e la maggiore cima; Roccaraso è a lato del PNdA.
Se si fanno essenzialmente parchi montani è perché qui la natura è ancora ben conservata essendo la montagna un luogo, ovunque, poco antropizzato; in altri termini, non è il fatto che in altitudine le specie faunistiche e vegetali sono di pregio superiore a quelle che trovano i propri habitat, potenziali per quanto stiamo per dire, nelle fasce collinari e pianeggianti, bensì la circostanza che a queste quote, lo si ripete, quelle di collina e di pianura, l’antropizzazione ha modificato il territorio, sottraendo spazi vitali agli animali selvatici e sostituendo la vegetazione originaria con piante di tipo “produttivo”, prendi gli alberi da frutta.
È un ragionamento comprensibile quello di realizzare i parchi in zone montuose e, però, sarebbe stato meglio se si fosse agito prima, prima dell’epoca del “boom economico” che portò, per quanto riguarda il Matese, alla nascita di Campitello. Il parco più prossimo, il Parco Nazionale d’Abruzzo, aveva avuto la fortuna di essere stato creato antecedentemente alla stagione dell’esplosione degli impianti sciistici avvenuta negli anni 60 del secolo scorso. Se il cuore di tale Parco si è salvato mentre quello del Matese che è Campitello, non fosse altro che per la sua centralità rispetto al massiccio montuoso, no, l’attacco all’integrità dell’ambiente nel caso del PNdA è avvenuto ai suoi confini, con le attrezzature per lo sci di Roccaraso.
Non è, ovviamente, la stessa cosa avere una stazione di sport invernali nel pieno dell’Area Protetta come succede nel Matese o averla ai margini, perché la sua presenza è ingombrante e non facilita l’azione di conservazione; l’istituzione del secondo più antico parco italiano invece precede, e di molto, l’affermazione della pratica dello sci di massa. Avere un “nemico” nel proprio seno, peraltro nel suo baricentro geografico, è una forte penalizzazione per il Parco del Matese, un ospite scomodo con cui si è destinati a convivere.
Volenti o nolenti in quanto non ha facoltà l’Ente Parco di decidere alcunché sulle concessioni, quella del trasporto funiviario, cioè le seggiovie, in atto (magari sui rinnovi sì); incidentalmente, riguarda sempre Campitello e riguarda sempre il sistema ecologico, l’ecosistema, di quest’ambito, si fa rilevare che persiste ancora la concessione alla “derivazione di acqua pubblica” per cui le acque di Capodacqua che fino ad un secolo fa inondavano a loro piacimento il pianoro sono state canalizzate nel primo tratto, in corrispondenza del pianoro e poi intubate per alimentare la centrale idroelettrica di S. Massimo la quale ha perso oggigiorno il suo ruolo nevralgico.
Nessuno si azzarda ad ipotizzare lo smantellamento della canalizzazione per le conseguenze sulla praticabilità ad uso turistico del pianoro e, del resto, essa è diventata una testimonianza di archeologia industriale. Il Parco del Matese ha un’altra pesante eredità (sul PNdA non c’era un gravame simile) da gestire anch’essa legata alla località turistica, un problema, non ulteriore perché conseguenza diretta del villaggio invernale, che il Parco d’Abruzzo non ha, è quello della strada che raggiunge il nostro centro montano per via piuttosto del traffico intenso che la interessa d’inverno, che del manufatto viario in sè stesso.
Quest’ultimo è sicuramente elemento di frammentazione ambientale cui si può ovviare, in qualche modo, tramite sottopassi o sovrappassi (simili alla galleria paravalanghe verso la fine del percorso, a Pianelle) per la fauna, a differenza che alla motorizzazione, ai disturbi che produce, emissione di gas e rumori, tanto essa sia su strada quanto fuoristrada, le motoslitte per portare a spasso i visitatori, nei mesi freddi con neve, e le moto da cross, nei mesi caldi, capaci di salire fin sulla cima di m. Miletto (vi era una targa a ricordare l’”impresa”).
Per evitare l’intasamento veicolare dell’insediamento urbanistico è previsto un parcheggio esterno della località con trasbordo degli sciatori su navette, cosa, cioè lo stop alle auto e il trasferimento dei viaggiatori in pullman che è auspicabile venga attuata non all’ingresso della stazione bensì a valle, sic et simpliciter. Una lettura benevola (e nel contempo, lo si ammette, avente un sottofondo ironico) alla decisione della Giunta regionale di proporre l’esclusione dell’areale ristretto comprendente Campitello dalla Perimetrazione del Parco del Matese delineata dall’ISPRA porta a pensare che nell’Esecutivo della Regione vi fosse la consapevolezza delle difficoltà gestionali, a causa delle problematiche qui esposte, a carico della Direzione del Parco, molto più difficili di quelle che è chiamato ad affrontare l’omologo organismo del parco Nazionale d’Abruzzo.
Seppure fisicamente vicini i due Parchi sono lontani in quanto a tematiche di tutela. Costituisce un presagio negativo che potrebbe avverarsi qualora non venga sciolto il nodo di Campitello che è, nel medesimo tempo lo snodo delle piste da sci e degli itinerari escursionistici, l’esperienza del Parco della Costa Teatina, uno dei parchi nazionali a breve distanza dal Matese (i restanti due sono il PNdA e quello del Gargano) e quindi una storia ben conosciuta dalle nostre parti; la sua mancata attivazione pur essendo ormai trascorso un decennio dalla legge istitutiva è un monito per i fautori del Parco del Matese.
Per quest’ultimo, anche in senso temporale, la questione che affligge è il turismo invernale legato allo sci, mentre per quello della Costa Teatina è il turismo estivo, quello legato alla balneazione, in ogni caso il turismo di massa che si afferma nella seconda metà del ‘900 a seguito di 3 novità, l’accresciuta capacità di spesa delle persone, la loro maggiore disponibilità di tempo libero, a sua volta dipendente, una parola non a caso, dalla crescita del lavoro dipendente, e la diffusione dell’auto privata.
Il PNdA all’avvento di questo triplice ordine di innovazioni negli stili di vita era già bello e pronto e la sua esistenza era ormai consolidata essendo ormai trascorso mezzo secolo dalla sua nascita. Infine, ci interessa rimarcare una ennesima differenziazione tra il PNdA e il Parco del Matese che ha a che fare con la democrazia, quindi con qualcosa non da poco, messa in ultimo nella presente esposizione e, però, non ultima per rilevanza. Il PNdA fu voluto dal potere centrale che in quella fase storica, subito dopo si ebbe l’avvento del Fascismo, si avviava a mutarsi in dittatura; nel secondo dopoguerra con il varo della Costituzione si legittimò la partecipazione popolare a qualsiasi livello, pure nelle decisioni riguardanti l’istituzione di un parco.
Il dibattito sulla opportunità o meno di creare un’area protetta non è più confinato alla sfera governativa, come per il PNdA, coinvolgendo la società nel suo complesso la quale, quella odierna, è neanche a dirlo complessa, variegata con una pluralità di componenti portatrici di visioni distinte. A spuntarla sono state le associazioni ambientaliste sorte nell’ultimo scorcio del XX secolo quasi provvidenzialmente, senza le quali, infatti, la battaglia sulla formazione del Parco del Matese cui hanno aderito tante cittadine e cittadini non sarebbe stata vinta e, anzi, la legge istitutiva è stata, finora, una delle poche, ma esaltanti, vittorie del movimento protezionista molisano più che campano avendola caldamente propugnata.
di Francesco Manfredi-Selvaggi