La storia pastificio Scarano di Trivento
Pasta fatta in casa, cioè i pastifici locali
di Francesco Manfredi Selvaggi
14 ottobre 2022
La storia che si racconta, in quanto esemplare delle tante aziende pastaie che esistevano nel Molise fino al secondo dopoguerra, è quella della fine del pastificio Scarano di Trivento. Non è solo una perdita di attività economiche, ma pure di una sapienza artigianale che si era tramandata di generazione in generazione e che non è più recuperabile.
È una tradizione, quella degli Scarano di Trivento, pluricentenaria, tanto che alla famiglia viene attribuito l’appellativo di “maccheronai” o “maccaronai”, in dialetto (la pasta è chiamata anche maccheroni), terminata agli inizi degli anni 50 del secolo scorso. È la stessa sorte che è toccata alla maggioranza dei pastifici che numerosi erano insediati in Molise. Forse è stata proprio questa la ragione della sparizione di una quota consistente di questo importante comparto produttivo molisano, quella dell’elevato numero delle unità imprenditoriali ai quali si associa, inevitabilmente, la loro generalizzata piccola dimensione.
C’era un’atavica resistenza delle imprese ad associarsi per far fronte alla concorrenza della emergente industria pastaia del Nord; tale diffidenza dovette nutrire Alberto Scarano verso la proposta dell’azienda Ferro, impegnata nel settore granaio, di, per così dire, unire le forze che rifiutò. Del resto, l’unico erede maschio, Nicolino, diventa medico e pertanto non si sarebbe assicurata la continuità dell’attività; egli, figlio, nipote e pronipote di pastai, pure per via materna, sceglie un’altra strada anche perché il futuro dei pastifici locali, con l’eccezione dei Carlone, Colavita e Guacci, nel secondo dopoguerra già si avvertiva incerto.
Non si era preparati al passaggio da una organizzazione gestionale di tipo famigliare a una manageriale. Uno dei principali fattori che ha concorso a determinare la crisi dell’agroalimentare, quindi anche degli oleifici, così come delle fabbriche di laterizio è stato la difficoltà dei trasporti per la mancanza di una rete viaria efficiente e, per quanto riguarda Trivento, della ferrovia. Bisogna, poi, aggiungere che la sede del nostro pastificio è al centro della lunga (e spettacolare) scalinata di via S. Nicola, con i gradini che impediscono l’accesso agli automezzi. Eppure in passato da qui partivano confezioni di pasta dirette verso l’America, richieste dagli emigrati i quali desideravano i prodotti italiani.
C’è un’altra componente essenziale che influisce sulla crisi di questo ramo dell’economia molisana, un tempo fiorente, perché la nostra è una terra a vocazione cerealicola, ed è il mancato adeguamento degli spazi lavorativi (un condizionamento è l’alloggio del proprietario), necessario per modernizzare la produzione. Analizzando il pastificio Scarano, ci sarebbe stato bisogno di uno stabilimento nuovo che sia, oltre ad essere servito, per quanto detto prima, da una strada carrabile, più ampio e su di un unico piano.
Nel sito attuale, le funzioni sono suddivise per livello: la “conciatrice”, cioè il locale dove avviene la pulitura del grano, la pesa, i locali per la ventilazione meccanica della pasta e il negozio dove si vendevano al minuto, e a peso, i vari formati di maccheroni stavano al pianterreno, la lavorazione della pasta e il magazzino nel seminterrato. A quest’ultima quota c’è un largo cancello nel muro di cinta del lotto di pertinenza che dà su un vicolo laterale per l’ingresso e l’uscita delle merci. I due piani sovrapposti sono collegati da un montacarichi azionato da una ruota.
L’aggiunta del mulino, di cui parleremo dopo, all’interno del pastificio riduce la facilità di movimento mentre all’esterno vi è la centrale termica, la quale, è evidente, ha l’esigenza di un vano a sé stante. Infine per la preparazione del pane, originariamente non prevista, si realizza un mezzanino che verrà chiamato “panatica”. Quelle esaminate finora, la taglia micro, la modalità di conduzione, i disagi nei collegamenti, l’insufficienza della superficie e la stratificazione delle fasi della produzione con due impalcati e “mezzo”, la panatica, sono, comunque, delle concause in quanto la causa principe è l’inadeguatezza del processo produttivo il quale non era più al passo con le innovazioni tecnologiche più recenti.
Queste sono legate alla logica che si stava affermando in ogni campo del mondo industriale dell’unificazione delle fasi di lavoro e, perciò, non è una questione semplicemente di macchinari più moderni. Appaiono apparati meccanici che incorporano le diverse macchine, in qualche modo, utilizzate in precedenza: la materia prima si trasforma in pasta seguendo un processo continuo, senza interruzioni, che va dall’impasto all’estrazione dei formati dei maccheroni dalle trafile fino alla loro essiccazione che ora è automatizzata pure essa.
Il pastificio Scarano possedeva attrezzature che per la metà iniziale del Novecento erano all’avanguardia, di fabbricazione tedesca, le quali avevano ben lavorato per mezzo secolo tanto da far vincere alla ditta triventina medaglie in esposizioni nazionali di cui si fregiava con orgoglio. Aveva una dotazione esemplare, dall’impastatrice ribaltabile alla gramola, acquistata non da molto, con i suoi rulli conici dentati, 3 presse in ghisa, due orizzontali, per la pasta corta, ed una verticale, per quella lunga, che è un torchio idraulico.
Dall’azionamento per mezzo della “stanga” mosso dai muli si era passati a quello tramite caldaia a vapore, alimentata dal carbon coke, e, in seguito ad energia elettrica; l’elettrificazione, però, non cambiò le modalità della messa in azione delle apparecchiature con ancora, ciascuna di esse, tramite cinghie, collegata alla centrale unica e non fornite di un proprio motore elettrico autonomo e già questa fu una mancata riconversione. La pasta veniva lasciata ad essiccare all’aperto seguendo i capricci delle condizioni atmosferiche assecondandole, procedimento che si spostava in ambienti chiusi, ma areati, muniti di ventilatori a pale durante la cattiva stagione: era un metodo ideale che, però, abbisognava dell’esperienza e del sapere artigianale, trasmessa di generazione in generazione, non replicabile da altri, niente di più lontano dalle regole industriali.
La sapienza antica è quella che è alla base dell’utilizzo esclusivo dell’acqua proveniente da una fontana in località Citerna (cisterna) per l’impasto della semola in quanto in possesso di particolari caratteristiche organolettiche. La “qualità del prodotto” era al centro delle attenzioni di questa attività, per cui si decise di completare il ciclo produttivo, che si sarebbe dovuto svolgere interamente dentro l’unità aziendale, introducendo un mulino a servizio del pastificio. Il grano duro che costituisce la semola richiede una macinazione accurata altrimenti i piccolissimi granelli che sono, per l’appunto, assai duri, se non ben frantumati dalla macina non riescono ad imbibirsi di acqua, cosa che i mulini ordinari non riescono a garantire in quanto finalizzati alla produzione di farina di grano tenero, quella di uso comune. La filiera, dal grano alla pasta, così si chiude. Non c’è, comunque, niente da fare nonostante l’elevato livello qualitativo del prodotto, prevalgono le esigenze del consumo di massa che si associa all’industrializzazione.
di Francesco Manfredi Selvaggi