Andare per acqua con la “tina”
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Francesco Manfredi-Selvaggi
4 novembre 2022
Munite di “spara e tina” andavano le donne ad attingere l’acqua dai pozzi: pozzo a monte, fontana a valle, neviera.
Se la ritualistica degli sguardi d’amore nelle giornate di festa avveniva davanti alla chiesa, per tutto l’anno si rinnovava sulla strada che portava al pozzo.
Questo era il quotidiano impegno delle ragazze che andavano a prendere l’acqua.
“Alzati presto e non farti precedere dalle altre” dicevano le mamme alle figlie, specialmente nei mesi estivi, quando la siccità impoveriva i pozzi e non si riusciva ad attingere acqua pulita.
Acqua melmosa veniva fuori da quelle poveri sorgenti, ma nessuno la voleva; toccava a chi attingeva per ultimo. Allora liti furibonde si accendevano ai bordi delle fonti ove ognuna affermava i suoi diritti di precedenza.
“Andare per acqua” era, però, anche momento di gioia. Il pozzo si trovava lontano, ma la distanza non spaventava quelle giovani fanciulle: una volta, due volte, tre volte travasavano l’acqua della tina al recipiente più grande e via di nuovo ad attingere.
Il pozzo era il punto di incontro con le amiche, ma non solo con loro.
Lui era lì, all’angolo della strada. La ragazza sentiva lo sguardo su di sè ma passava diritto, con indifferenza, senza voltarsi; scambiarsi un saluto o poche parole nemmeno a pensarci.
Quel giovanotto, probabilmente, non era l’uomo dei suoi sogni e, sicuramente, non sarebbe divenuto l’uomo della sua vita, ma la sua presenza riempiva di felicità il cuore della ragazza.
Allora quando il contenitore dell’acqua tenuto in casa stava per essere riempito e la festa mattutina dell’amore volgeva alla fine, la ragazza tendeva ad allungare il tempo e il rituale: a metà strada, quando nessuno la vedeva, riversava per terra il contenuto della tina e via di nuovo ad attingere nuova acqua e nuovi sguardi d’amore per cui sognare e non inaridire.
di Vincenzo Colledanchise