• 16 Febbraio 2023

“C’è lo sguardo del poeta oltre Sanremo”

Un uomo del Sud spende belle parole per un altro uomo del Sud

di Andrea Di Consoli (da Il Mattino – 15.02.23) 

16 Febbraio 2023

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Negli stessi giorni del grande successo di pubblico del Festival di Sanremo, mi è capitato di assistere a un evento a Terni, a “UmbriaLibri”, al quale ha partecipato il poeta irpino Franco Arminio. Non era la prima volta che mi capitava di ascoltarlo in giro per l’Italia, ma vedere quasi cinquecento persone raccolte davanti a lui in religioso silenzio per quasi due ore mi ha fatto molto riflettere. Quello di Arminio è un fenomeno letterario e sociale che non deve essere sottovalutato.  

Lungi da me qualsiasi tentativo di mettere a paragone il pubblico di Sanremo con quello di Arminio – credo che i due pubblici s’incrocino e s’intreccino tranquillamente –, ma non posso non pensare, al di là della bellissima macchina spettacolare che ogni anno si accende al teatro “Ariston”, che c’è un pezzo d’Italia che cerca risposte più dirette e profonde. Dico questo perché da qualche anno il Festival di Sanremo è anche un luogo dal quale si veicolano messaggi “impegnati”, ma spesso questi messaggi “mainstream” sono costruiti sull’esigenza di una medietà, scusate il bisticcio di parole, di natura mediatica. E questo, com’è giusto che sia, lascia insoddisfatti quanti – e sono tanti – s’interrogano in maniera più radicale sul senso della vita. 

Con Arminio si parla di temi essenziali e poco à la page come la paura, l’ansia, l’ipocondria, la morte, le aree interne, i piccoli paesi spopolati, i destini marginali, i corpi feriti, le solitudini, ecc. I suoi incontri con il pubblico sono momenti di autocoscienza – all’interno di vincoli comunitari provvisori, che però continuano ad agire in forme incalcolabili nel tempo e nello spazio – nei quali tutti si sentono liberi di pensare con indulgenza e clemenza ai propri limiti, alle proprie paure, alle proprie inadeguatezze. I suoi incontri sono riti collettivi in cui si sente di nuovo la presenza del sacro; ma il sacro, in Arminio, non è mai un dato metafisico, bensì terreno, corporale. Con lui tutto ciò che è umile e ferito, solo e impaurito, diventa misteriosamente sacro – pure un lampione rotto, un cane randagio, una vecchia casa chiusa ai margini del paese.

Sono anni che ascolto e osservo le reazioni e i pensieri delle tante persone che seguono Arminio. E tutte loro mi sembrano accomunate da un identico bisogno di verità, di sincerità, di condivisione, e da un eguale disagio verso la parte più brutale e superficiale della modernità. Mentre il Festival di Sanremo celebrava le icone più “centrali” e alla moda del sistema mediatico, Arminio dava dignità – anche lì a Terni – a storie, pensieri e personaggi lasciati in disparte dalla società dello spettacolo, restituendo dignità a chi rimane indietro, a chi s’incaglia in paure e nostalgie, a chi cerca un legame coi morti, con la poesia, con Dio, con qualcosa che potrei definire latamente fraternità. Ovviamente continuo a paragonare questi due fenomeni solo per pura coincidenza temporale, perché mi è capitato di assistere a un grande vento di Arminio negli stessi giorni del Festival.

Mentre questa modernità sembra spazzare via tante, troppe cose – l’elenco sarebbe interminabile – molti sentono, senza per questo attardarsi in un ideologico rifiuto del presente, che senza una riconnessione profonda con i luoghi, le identità, le storie e la nostra anima più profonda il rischio è quello di vivere una vita senza senso (dominato com’è, questo nostro presente, da “valori” effimeri come la giovinezza, il successo, la bellezza, la ricchezza economica). Tuttavia la critica della modernità che fa Arminio non è fondata sull’aut-aut, ma sull’et-et. In altri termini, Arminio non contesta ideologicamente la modernità con logiche reazionarie, ma propone di arricchirla con punti di vista più sinceri, più franchi, più fraterni. Su questo punto conviene insistere, perché non sono pochi coloro che nutrono qualche riserva sui messaggi di Arminio. Io dico che in una società libera, aperta e plurale è uno spreco conoscitivo ragionare per sottrazione anziché per addizione. In altri termini, i messaggi di Arminio possono benissimo convivere con ciò che emerge dal Festival di Sanremo, perché una logica intelligente porta a saper abitare più mondi e a saper apprezzare tante dimensioni della vita.  

Quando l’altra sera a Terni, a “UmbriaLibri”, ho ascoltato i discorsi che le persone hanno fatto ad Arminio al termine del suo intervento, ho sentito parole commosse, grate, riconoscenti. Molti hanno espresso gratitudine perché, attraverso le sue parole, hanno ritrovato dignità per ciò che erano, per ciò che facevano, per i luoghi nei quali vivevano, magari perché si erano convinti di essere sbagliati, marginali, inutili per questa modernità. L’ho trovato commovente, perché in tutti noi ci sono zoppie, incrinature, crepe, paure e ferite di cui ci vergogniamo e che tendiamo a nascondere. Arminio sta aiutando migliaia di persone a non provare vergogna, a non chiudersi, a riabituarsi agli abbracci e alla condivisione. E cosa ci sia di così contestabile in tutto questo mi risulta francamente incomprensibile.

 di Andrea Di Consoli (da Il Mattino – 15.02.23) 

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