La scuola di prossimità
Negli anni 60/70 per tante località delle aree interne italiane la chiusura della scuola, conseguente allo spopolamento e alla marginalizzazione di cui è stata vittima gran parte del territorio, ha significato la perdita di futuro
di Rossano Pazzagli (da Nautilus rivista)
4 Luglio 2023
C’è stato un tempo in cui la scuola si avvicinava agli alunni e al territorio. Ora è il contrario: ha prevalso l’idea di concentrare i bambini, costringendo loro e i loro familiari a percorrere quotidianamente chilometri e chilometri per accedere all’istruzione.
La scuola si è allontanata e spesso, anche per questo motivo, le famiglie sono state spinte a trasferirsi verso i maggiori centri urbani. Il fenomeno ha riguardato in particolare l’Italia rurale, cioè quella delle campagne e dei paesi che occupano gran parte della superficie nazionale.
Negli anni ’50 del secolo scorso, nell’Italia ormai repubblicana e costituzionale, si avvertì il bisogno di assicurare a tutti il diritto all’istruzione attuando gli articoli 33 e 34 della ancora giovane Costituzione, secondo i quali “la scuola è aperta a tutti”, obbligatoria e gratuita per almeno otto anni, assegnando alla Repubblica il compito di “istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi” e di rendere effettivo il diritto all’istruzione.
La necessità di assicurare questo diritto si esplicò allora attraverso servizi scolastici che cercavano di avvicinarsi il più possibile all’utenza e ai territori. Sarebbe una storia da fare e da ripensare, non per tornare alla scuola dei nonni, ma per raccogliere l’importanza di un legame ravvicinato tra scuola e territorio, tra educazione/istruzione e contesti di vita, poiché oggi ci troviamo in una situazione di crescente decontestualizzazione dell’azione formativa, in una sorta di deterritorializzazione della scuola. Si tratta di un aspetto negativo delle tendenze globalizzanti ed omologanti del nostro tempo, di un grave danno soprattutto per le aree interne del Paese, che sono tante.
Quand’ero bambino c’erano scuole perfino nelle campagne, e in un piccolo comune come quello di Suvereto, dove sono cresciuto, nella Toscana rurale degli anni ’60, c’rano cinque o sei plessi scolastici sparsi nel territorio comunale. Io ho fatto le prime tre classi delle elementari nella casa di un contadino, presso cui l’amministrazione scolastica aveva affittato una stanza dotandola di cattedra, banchi e lavagna, frequentata da una decina di alunni dai 6 ai 10 anni provenienti dai poderi della zona.
Si trattava della “Scuola Sussidiaria di Fontanella” ed era una pluriclasse. La coppia di contadini che amorevolmente ci accoglieva ogni mattina – Pio e la Beppa – partecipava come poteva all’accudimento di quei pochi bimbi di campagna alla prova coi rudimenti dell’educazione e dell’istruzione. La maestra, bella e giovanissima, si chiamava Vanna Monticelli (ma si faceva chiamare Prefaut, cognome del marito) e veniva da Piombino; in terza le successe un’altra giovane donna, Maria Baldi, che avrebbe poi seguito una lunga carriera di maestra nelle scuole pubbliche del comprensorio. È bene ricordarli i nomi delle persone e dei luoghi, perché era una scuola ancora povera di strumenti, ma ricca di umanità.
Forse il mio era un caso estremo, trovandosi la “scuolina” in aperta campagna e inserita nella casa contadina, per di più ancora sprovvista di energia elettrica (come le nostre rispettive abitazioni, del resto). Ma in tutta Italia c’erano scuole simili, modesti fabbricati scolastici nelle contrade, nei piccoli borghi o frazioni distanti dal capoluogo comunale; altre ancora furono aperte nelle zone di riforma agraria. Si chiamavano, appunto, scuole sussidiarie e di lì a poco avrebbero subito le conseguenze della fuga dalle campagne connessa all’industrializzazione e all’urbanizzazione del Paese.
Negli anni del boom economico si pensò di risolvere tutto istituendo i trasporti scolastici, automobili o pulmini che arrivavano fin dove potevano, in campagne non sempre dotate di strade adatte agli autoveicoli. Nel mio caso il risultato fu che dovevo lo stesso percorrere 3 chilometri a piedi per raggiungere il pulmino che mi portava nella scuola grande del capoluogo, in una classe numerosa di una trentina di bimbi, tutti della stessa età. Qui però nell’aula c’era la luce, che si accendeva con un clic nelle giornate nuvolose.
Piano piano le scuole di campagna furono tutte soppresse. Poi si sarebbe arrivati, progressivamente, anche alla chiusura delle scuole di paese nei centri più piccoli che si andavano spopolando. Per tante località delle aree interne italiane la chiusura della scuola, conseguente allo spopolamento e alla marginalizzazione di cui è stata vittima gran parte del territorio, ha significato la perdita di futuro, accentuando le disuguaglianze tra zone forti e zone deboli, città e campagna, pianura e montagna.
Si è affermata così una visione polarizzante della società, dell’economia e anche della scuola. Pagheremo a lungo questa logica polarizzante in un Paese storicamente policentrico e geograficamente complesso come l’Italia.
Infine, com’è noto, tra 2020 e 2021 la scuola è stata chiusa in tutta Italia a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al covid19. È stata una chiusura forse esagerata, non ponderata, perfino discriminatoria rispetto ad altri settori della società. È stata anche questa la cifra di un Paese, la misura della insufficiente considerazione della scuola: una sottovalutazione alla quale non dobbiamo rassegnarci. Poi, dopo qualche mese, la scuola ha riaperto tra mille incertezze, ma non ha riaperto e non riaprirà in tutti quei luoghi dove è stata chiusa per anni a causa di una malattia altrettanto grave, endemica se non contagiosa: quella dello spopolamento e dell’abbandono.
Riaprire le scuole nei paesi, anche dove sono rimasti pochi bambini, sarebbe un modo per farli tornare, per ridare fiducia per spingere tante famiglie a riabitare l’Italia interna, laddove c’è spazio, dove si va più lenti per andare più lontano.
Non una scuola di seconda o terza serie, ma una scuola sperimentale e innovativa, investendo sulla continuità educativa e sulla piccola dimensione, sulle pluriclassi che possono essere una risorsa anziché un limite, sull’educazione e l’istruzione tematica, sui servizi per l’accesso.
La piccola scuola non dovrebbe essere un semplice luogo di apprendimento, ma anche riferimento educativo che risponde al bisogno di socialità, di condivisione, di reciprocità, di esplorazione, di comunità. Tutte cose maggiormente possibili nelle piccole scuole.
A confermarlo ci sono, qua e là, esperienze attive che dimostrano come sia possibile garantire l’erogazione dei servizi educativi e di istruzione mantenendo e rafforzando le scuole tradizionali, coniugando la funzione di presidio territoriale con una elevata qualità dell’insegnamento.
Affinché ciò avvenga, bisogna uscire dalla logica della concentrazione degli alunni e dalla demonizzazione delle piccole scuole, che anzi rappresentano spesso – soprattutto se sostenute da adeguati investimenti, sia nelle strutture che nelle metodologie didattiche – esempi di efficienza e di modernità educativa. La stessa pluriclasse con un numero limitato di alunni si dimostra in certi casi una modalità proficua dal punto di vista dell’apprendimento, perché tutti gli alunni possono essere seguiti quasi in modo individuale e personalizzato, con la possibilità di colmare in itinere eventuali lacune. Sono esperienze da osservare e imitare, per evitare la spersonalizzazione e il distacco comunitario insito nei tanto propagandati “poli scolastici”, per ridare dignità e slancio alle piccole scuole e alle comunità di riferimento.
La scuola di prossimità – come si chiama oggi – intesa come modello basato su sedi scolastiche piccole, diffuse e vicine all’utenza, è una opzione che merita attenzione e sostegno, non solo per assicurare il diritto a una buona istruzione per chi vive nelle aree periferiche, ma anche per il contributo che può dare allo sviluppo culturale e civile del Paese.
Per questo nel 2017 a Favignana (TP) è stato fondato il Movimento delle Piccole Scuole, una rete di istituti situati nei territori svantaggiati e con un esiguo numero di studenti; un progetto sostenuto da INDIRE, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa.
Le piccole scuole possono rappresentare così un’offerta pedagogica qualificata e innovativa, avvalendosi dei piccoli numeri oltre che della partecipazione delle comunità. Queste scuole rivestirebbero anche il ruolo di presìdi territoriali in grado di favorire la “restanza” delle giovani famiglie nelle aree interne e l’insediamento di nuovi abitanti che vogliono emanciparsi dal modello di vita metropolitano o che arrivano da altri mondi.
Con coraggio e lungimiranza occorre mettere al primo posto il mantenimento o il ritorno della scuola (e dei bambini) nei paesi, anche laddove ne sono rimasti pochi. Sarebbe un investimento in futuro, un vero progetto politico contro le disuguaglianze e un esperimento di innovazione sociale, perché – come ribadisce proprio il Manifesto delle Piccole Scuole – uno degli obiettivi di un Paese moderno è quello di garantire istruzione di qualità in ogni parte del suo territorio.
di Rossano Pazzagli (da Nautilus rivista)