Esperienze nelle capanne di Capracotta
Intervista di Roberta della “Rete delle Case delle Erbe” ad Antonio D’Andrea di “Auser – Vivere con Cura” – Prima parte
di letteraturacapracottese.com
3 novembre 2023
Vita dei carbonai nei boschi
Domanda: – Dai, raccontami la tua esperienza di aver dormito in una Capanna dei boscaioli-carbonai di Capracotta il 24 ottobre 2023.
Risposta: – Sì. Solo circa tre settimane fa sono venuto a conoscenza che in estate un gruppo di uomini, sotto le indicazioni di Adriano di 82 anni boscaiolo da quando aveva 8 anni fino ai 14, aveva realizzato una capanna, riproducendola fedelmente, così come la costruivano i boscaioli-carbonai di Capracotta – di solito in squadre di cinque uomini e un ragazzo addetto alla cucina – quando andavano in giro nei boschi del sud Italia a produrre il carbone vegetale e la carbonella. Il primo giorno di arrivo subito la costruivano in modo da potersi riparare fin dalla notte stessa. Tieni conto che il lavoro era stagionale, di solito da novembre a marzo-maggio quindi con punte di clima freddissimo.
E se il tempo era particolarmente inclemente e quindi non potevano lavorare tornavano a casa senza neanche un soldo, alcuni addirittura vendevano il paiolo – re chettùre in dialetto – per ripagarsi il viaggio. Iniziavano a lavorare da prima dell’alba e andavano a dormire stanchi morti al tramonto cadendo in profondi sonni ristoratori. C’era chi era addetto a nutrire e curare anche di notte il catozzo (la cupola-igloo di legna) che bruciava lentamente fino ad arrivare al prodotto finale: carbone e carbonella.
Ci voleva forza sapienza e abilità, in sintonia con tutto il gruppo, per realizzare bene tutti i passaggi, dal taglio degli alberi, con la grande sega a mano – re ŝtuócche – manovrata da due uomini fino ai sacchi di carbone che venivano acquistati dal proprietario del bosco o da una impresa a carattere familiare. E i rami venivano venduti a fasci nel paese vicino, andando con l’asino o il mulo e questo compito era svolta dai bambini o dalle donne.
Preparativi
D: – Va bene come premessa, ma adesso raccontami della notte in grotta.
R: – Dopo esser andato a vederla dall’esterno ho chiesto a Carmen, la botanica che cura – e fa anche da guida erboristica – il Giardino della Flora appenninica a 1.500 m, se potevo visitarla anche all’interno e se avessi potuto trascorrere una notte nella capanna. Mi ha risposto che ne avrebbe parlato con il direttore e mi avrebbe dato la risposta. Il giorno dopo ho l’approvazione e concordiamo la data per martedì 24 ottobre dopo aver avuto conferma che non avrebbe piovuto, anzi si prevedeva giornata soleggiata. E così, contento come una pasqua ma senza perdere la serenità, al mattino presto del 24 carico l’auto di cuscinoni che fungeranno da materasso, asse di legno di 1,80 m per 90 cm da mettere sopra i rami che fanno da rete, ma essendo irregolari avrebbero potuto disturbarmi il sonno, e poi coperte, cuscino di alloro, candele e portacandele, vaso da notte (contenitore con tappo), scatolone di cartone che avrebbe funto da micro baldacchino proteggi spifferi al collo-testa, scatolone aperto pieno di lavanda secca per contribuire a profumare l’ambiente e libro da leggere. Dopo aver sistemato per bene sono tornato a casa per il pranzo e dalle 16 sono tornato in pianta stabile portando le ultime cose.
Quella sera avrei saltato la cena come ormai faccio due o tre volte la settimana, anche per concentrarmi sui dettagli per non avere possibilmente problemi la notte. Appena arrivato, alle 16, il termometro, che avevo portato, dava 15 gradi centigradi ma dopo un’ora ne dava 13 e così mi sono detto che siccome a Capracotta da alcuni giorni dava 7 gradi di notte, lì al Giardino, più in alto di cento metri, sarebbe potuto arrivare anche a 4 o 5 gradi… anche se so che la copertura di terra sopra i tronchi permette un accumulo di calore, ho dedicato tempo alla vestizione pezzentella.
Questo è il corredo che ho indossato: un paio di calzerotti di lana fatti a mano con anche un altro paio lungo di cotone leggero per far sì che non ci fosse neanche un millimetro scoperto tra calzerotto e pigiama. Poi un pantalone pigiama di cotone con sopra un altro pantalone pigiama di lana di una volta, caldissimo e due maglie di lana attillatissime, di cui una fatta a mano con motivi a rilievo in modo che in caso di freddo estremo, sfregando le mani dall’alto in basso sulla suddetta maglia avrebbe attivato ancora di più la circolazione sanguigna e procurato quindi più calore.
E ancora: un cappuccetto rosso – e alla fine mi sentivo proprio come il personaggio della famosa fiaba – trovato giusto dieci giorni prima (che mi avevano dato in uno scatolone insieme ad altri panni da far circolare come riuso) sempre come proteggi spifferi per tenere calda la testa. E dulcis in fundo ho messo uno scatolone di cartone come micro baldacchino, sempre proteggi spifferi per la testa, con sopra un panno di lana rossa che mi simboleggia il sangue vitale e il fuoco interiore e non.
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