• 16 Marzo 2022

Retoriche e Manifesti sulle aree interne

Oltre gli immaginari di sviluppo stereotipati

di Giulia De Cunto, Veronica Macchiavelli, Enrico Mariani, Francesca Sabatini, Emidio di Treviri (da orticalab.it)

16 marzo 2022

Parole, intrecci e visioni urbano-centriche che contribuiscono a creare miti di esclusività ed eccellenza. Inversione dello sguardo, turismo, ripopolamento e spopolamento, rigenerazione culturale, alternativa e innovazione, smartworking, la SNAI e le sue best practices, il Piano Borghi: questa ricerca di una crescita come performance da quantificare e come standard da conseguire, induce i territori a competere.

La quinta Scuola di Fornara organizzata dal 31 agosto al 5 settembre scorsi dal gruppo di ricerca Emidio di Treviri* è stata un momento di formazione e approfondimento per chi lavora, fa ricerca e militanza sui temi della montagna appenninica, con un denso programma di interventi, ospiti accademici e protagonisti del territorio terremotato. In questo articolo vorremmo portare l’esperienza della giornata dedicata alle narrazioni sulla montagna e alle cosiddette aree interne, iniziata con una masterclass di Mauro Varotto a partire dal suo testo Montagne di mezzo. Una nuova geografia (Einaudi, 2020), e proseguita con la tavola rotonda Retoriche e Manifesti, che prendendo le mosse dal rinnovato e crescente interesse per le aree interne, si è posta l’obiettivo di muovere verso un’analisi critica del discorso che negli ultimi anni ha investito questi territori.
Il discorso sulle aree interne, seppur differenziato a seconda del contesto in cui è inserito, è caratterizzato da una convergenza di temi, prospettive e categorie sorprendente rispetto all’eterogeneità degli attori che vi partecipano. La tavola rotonda ha permesso di iniziare a riflettere criticamente su quello che sembra un vero e proprio alfabeto comune delle aree interne: un linguaggio sempre più affermato e riconoscibile, recentemente formalizzato e codificato da alcuni Manifesti che hanno definito gli orientamenti dominanti su come abitare e rigenerare i territori marginali.
La nostra riflessione parte dalla scelta del manifesto come strumento di certificazione del discorso: una tipologia di testo che si rende accessibile a un vasto pubblico, che nasce per circolare il più possibile, influenzare e orientare il dibattito. I testi-manifesti individuati, ovvero il Manifesto di Camaldoli delle/dei Territorialiste/i e il Manifesto per Riabitare l’Italia, hanno infatti acquisito negli ultimi anni tale ruolo. Analizzando questi e altri contributi che li accompagnano, si possono individuare temi e prospettive che emergono cronicamente, producendo alcuni stereotipi ricorrenti sui territori marginali, veicolati da quelle che dimostrano essere alcune delle retoriche dominanti (Varotto, 2020) sulle aree interne.
Dagli anni ‘60, il filone di studi che, partendo dai Miti d’oggi di Roland Barthes (1957) e passando dal Diario minimo di Umberto Eco (1961), influenzerà le scienze sociali e in particolare alcuni ambiti, come gli studi culturali e la semiotica, pone già in maniera chiara la questione del rapporto che intercorre fra retorica e ideologia: se la retorica è la struttura dei linguaggi, essa è normalizzata e resa abitudinaria nel discorso quotidiano. In quest’ottica l’analisi retorica, non riducendosi all’individuazione delle figure retoriche, permette di far emergere e rappresentare il deposito ideologico di una comunità. In questo senso, gli studi culturali individuano le retoriche «nei luoghi comuni, nei topoi, in quel che vale all’interno di una comunità, al di fuori del sapere apodittico, in quella zona grigia, spesso non detta o detta in modi indiretti, in cui si annidano per lo più (con diversi gradi di copertura e manipolazioni) le pratiche ideologiche» (Lorusso, 2015).
A partire da questa prospettiva, la nostra analisi vuole far emergere alcuni dei temi ricorrenti del discorso sulle aree interne e i loro intrecci reciproci, con l’obiettivo di individuare i valori, i posizionamenti sottesi e le retoriche che lo attraversano.
Un primo concetto emblematico è l’inversione dello sguardo (De Rossi, 2018), un’espressione fondativa di tutto il dibattito sulle aree interne, lanciata dalla stessa SNAI, e che si è imposta come vero leitmotiv. L’inversione dello sguardo è la «postura» (Pasqui, 2020) che vorrebbe «superare la dicotomia centro-margini» e tutte quelle tradizionali dicotomie che hanno storicamente opposto città e montagna, nord e sud, urbano e rurale: delle coppie oppositive sintomatiche di una visione “metrofila” che considera l’innovazione possibile solo nelle aree urbane. Invertire lo sguardo è considerato, da chi se ne fa portavoce, un gesto spiazzante e rivoluzionario: smettere di considerare le aree interne come dimensioni di arretratezza e guardarle invece come possibili laboratori di innovazione e futuro (Carrosio, 2019), dove ruralità e urbanità innovative si fondono per dare vita a una nuova civilizzazione (Manifesto di Camaldoli), come nuove centralità. L’appello di Riabitare l’Italia è che si crei un movimento, concreto e simbolico, di inversione del trend dello spopolamento, obiettivo ereditato dalla SNAI (Barca et al., 2014).
L’eco prodotto da questa visione si connette, a nostro avviso, a idee e progetti che portano con sé alcuni rischi. Durante la pandemia, ad esempio, abbiamo assistito a un’ondata improvvisa, e mediaticamente molto rumorosa, di inversioni dello sguardo, in particolare a partire dall’articolo di Stefano Boeri apparso su La Repubblica ad aprile 2020 in cui l’architetto sostiene che «nei vecchi borghi c’è il nostro futuro» e parla di «adozione dei borghi» da parte dei maggiori centri urbani. A seguito di questo contributo, si è generato un copioso filone discorsivo sul tema dello smart working nei borghi, presentato sempre più spesso come ricetta generale per riabitare le aree interne. Secondo Letizia Bindi (2021), a rivolgersi alle aree scarsamente urbanizzate per il lavoro da remoto è un segmento preciso di popolazione: «un ceto medio intellettuale, altamente scolarizzato, in larga parte garantito da attività lavorative stabili – statali o para-statali, di grandi aziende o banche – che ha beneficiato, in questo anno di distanziamenti e lockdown, di condizioni relativamente sostenibili di lavoro a distanza (insegnanti, impiegati della pubblica amministrazione, artisti, scrittori, ricercatori) e ha iniziato […] a considerare come auspicabile un ritorno alle aree interne, un ‘riabitare l’Italia’ minore e appartata come riserva di salubrità, di spazi e silenzi rigeneranti, di tempo disteso».
L’idea di un riabitare che faccia perno sullo smart working rischia di promuovere una fruizione elitaria di questi territori, in cui le aree interne e le loro qualità (prettamente ambientali) vengono rigenerate per la fruizione della classe media urbana. Da questo punto di vista, paradigmatico è il caso del Bando Borghi in cui sono individuati 21 borghi pilota per attuare progetti di rigenerazione territoriale. Come evidenziato dal Ministro Franceschini durante la presentazione del Piano, i borghi oggetto di intervento dovranno essere spopolati o semi spopolati, e ciascun dovrà individuare una propria funzione prevalente tra: residenze sanitarie per anziani, alberghi diffusi, residenze d’artista e residenze per lavoratori in smart working. Se l’esperimento dovesse funzionare, potrebbe essere il prototipo per l’avvio di un piano più ampio di ripopolamento di questi luoghi. Sempre secondo le parole del Ministro, questo progetto è stato concepito come parte di una più ampia strategia, già avviata dai Ministeri della Cultura e del Turismo, che non riguarda solo il ripopolamento delle aree interne, ma si preoccupa di «quando torneranno ad esserci i grandi numeri del turismo internazionale e con essi l’overbooking delle grandi città d’arte».
La capacità dei borghi di attrarre persone ha come condizione di possibilità proprio l’abbandono, visto come un vuoto propizio a innestare progettualità innovative, svincolate dalle forme di vita territoriali attuali. Se questa visione continua ad essere il motore di idee, progetti e politiche per le aree interne, il rischio è che non si raggiunga il cuore delle criticità che hanno determinato il progressivo spopolamento di questi territori. Ovvero, prima di pensare al ripopolamento si dovrebbe comprendere lo spopolamento come un epocale e diversificato processo di deterritorializzazione che non può essere invertito solo attraverso l’insediamento di nuove popolazioni temporanee, non legate ad attività produttive localizzate.
Le ricerche che conduciamo singolarmente e collettivamente ci mostrano come in molte aree interne sia in corso una crisi dell’abitare in senso funzionale: l’abitare connesso alle pratiche d’uso che legavano i gruppi sociali a specifici contesti per ragioni di consumo, gestione e tutela delle risorse ambientali, innestandosi in cicli di produzione partecipati dagli attori umani e non-umani. Un tipo di crisi che non può essere risolta con un’ondata di lavoratori da remoto. Dal nostro punto di vista, una riflessione situata e puntuale sul ripopolamento delle aree interne deve considerare l’abitare nella sua dimensione funzionale e radicata, senza la quale si riprodurranno le disuguaglianze socio-territoriali che ne hanno comportato la marginalizzazione (Olori, 2021). I nuovi abitanti, neo popolatori o ritornanti potranno vivere nelle aree interne, scartando ciò che della città è fallimentare, senza contribuire alla crisi e al superamento dei modelli produttivi, abitativi e relazionali?

Un altro asse portante del discorso sulle aree interne riguarda il turismo, considerato una delle traiettorie fondamentali, se non la principale, di sviluppo, nonostante molti contributi – tra cui gli stessi documenti programmatici della SNAI – dichiarino altrimenti. Nel Manifesto per Riabitare l’Italia, si critica quell’«ideologia della patrimonializzazione» (De Rossi, Mascino, 2018) che considera le aree interne come semplice giacimento di risorse da valorizzare e si sostiene la necessità di «una nuova visione del patrimonio, dove ciò che conta non è solo il suo contenuto in termini storico-culturali e identitari, ma la sua capacità di iscriversi e di agire attivamente dentro i percorsi di costruzione di abitabilità» (Ivi). Se guardiamo all’ambito delle politiche e degli interventi recenti, l’orientamento alla turistificazione sembra, al contrario, dominante: nel 2017, veniva avanzata la proposta di una Federazione delle aree interne che servisse a coordinare le 72 aree progetto, ma anche a «valutare la definizione di un prodotto ‘Aree Interne’, di carattere trasversale e di dimensione nazionale, e la sua capacità di affermarsi sul mercato turistico». Si affermava un orientamento che con la pandemia si sarebbe ulteriormente accelerato: considerare i territori come prodotti che si caratterizzano nel mercato turistico grazie a quello che viene definito «paradigma dell’esperienzialità» (Andreoli et al., 2018), inteso come la presunta offerta di esperienze autentiche, di contatto con “la comunità” e con “le tradizioni”. Questa prospettiva genera, tuttavia, una polarizzazione: alcuni territori sono individuati come dotati di quei valori – paesaggistici, esperienziali, enogastronomici – che li rendono attrattivi e competitivi sul mercato turistico, mentre gli altri dovranno trovare (o inventare) quegli elementi e quelle forme di racconto del proprio patrimonio. Una logica in cui la possibilità di sviluppo è tale solo per quei territori capaci di autopromuoversi in modo efficace, ma che diventa presto insostenibile anche per gli stessi territori “premiati”. I progetti di sviluppo fondati sulla monocultura turistica, soprattutto in aree montane, generano infatti economie e servizi specializzati, che producono territori intermittenti: il loro ciclo di vita dipende dalla fruizione turistica, non da un progetto di sviluppo endogeno e continuativo (Di Gioia, Dematteis, 2021; Braucher et al., in press), mostrando quanto questi non siano sostenibili, né vantaggiosi dal punto di vista economico e sociale (Magnaghi, 2010).

Inoltre, negli ultimi anni si fa sempre più strada l’idea di una turistificazione che passa attraverso forme di rigenerazione a base culturale delle aree interne, ma troppo spesso fondata su interventi episodici – come festival, rassegne, eventi temporanei – che si innestano nei territori con i loro format di breve durata, dando vita a esperienze che sono insostenibili sul lungo periodo, tanto per gli attori protagonisti – il cui impegno è necessariamente vincolato a forme di finanziamento episodiche – quanto per i territori che si trovano ad essere attraversati da ondate che lasciano tracce e segni visibili, ma senza generare continuità e sviluppo locale endogeno. Come mettere in pratica, quindi, delle politiche e delle visioni di sviluppo che non vedano unicamente nel turismo il settore di sviluppo trainante per questi territori? Come agire una visione del patrimonio che riesca davvero a «iscriversi e agire attivamente dentro percorsi di costruzione di abitabilità» (De Rossi, Mascino, 2018)?

Altri termini ricorrenti e strettamente intrecciati con i precedenti sono alternativa e innovazione. È sempre più diffusa la prospettiva secondo cui nelle aree interne si stiano affermando modelli di vita alternativi a quello urbano tardo-capitalistico, che vanno incoraggiati, supportati e se possibile replicati altrove. Un capitale alternativo, alimentato anche da un ritorno alla montagna utile a evidenziarla come alternativa praticabile e soddisfacente (Manifesto di Camaldoli), che serva a elaborare strategie e politiche di sviluppo davvero sostenibili e innovative.

Tuttavia, parlare di «laboratori di innovazione e di sperimentazione» (Carrosio, 2019) rischia di far perdere di vista la realtà diversificata e complessa di questi territori, in cui l’innovazione non è certamente accessibile a tutti. Le aree interne non sono popolate perlopiù da soggetti che possiedono il capitale economico e cognitivo necessario a partecipare a processi di innovazione: i trend demografici mostrano come questi territori siano prevalentemente abitati da anziani fragili e attori economici marginalizzati rispetto alle grandi catene della produzione globalizzata, in cui la normalità della vita è lontana dall’essere innovata.

Immaginare percorsi di sviluppo per le aree interne basati sull’innovazione sociale, tecnologica e produttiva è una visione che rischia di non interpretare realisticamente la condizione della maggior parte di questi. Si tratta, piuttosto, di una retorica funzionale a legittimare le politiche dettate dalle agende internazionali, che con la pandemia si sono delineate ancora meglio: la spinta alla digitalizzazione, alla transizione ecologica, alla smartizzazione di servizi, territori e relazioni.

Questa stessa visione si traduce nella logica delle best practices, implementata innanzitutto dalla SNAI e dalla letteratura di settore. Molte delle strategie di sviluppo per le aree interne sono infatti una ripetizione di soluzioni innovative sperimentate in alcuni contesti e ritenute di successo. Il risultato è che, pur inseguendo le esigenze di una progettazione place-based, molte strategie replicano modelli di intervento uguali in tutta Italia, il cui successo deve essere quantificato con indicatori di risultato. Questa ricerca dello sviluppo come performance da quantificare e come standard da conseguire, induce i territori a competere per conquistare fette di mercato e inseguire miti di esclusività e eccellenza. È lecito domandarsi quanto questo modello non spinga verso una sempre più aggressiva smaterializzazione e deterritorializzazione dei processi produttivi che creano valore in queste aree. Invece che elaborare forme di permanenza che mettano in gioco pratiche d’uso radicate sul territorio, le aree interne non rischiano di conformarsi a degli standard e di applicare modelli astratti, che mal interpretano le loro specificità?

Conclusioni: quali retoriche?
Molti degli aspetti controversi di questo dibattito riteniamo che derivino dalla prima operazione di definizione condotta dalla SNAI, ossia la costruzione della categoria aree interne. Alla radice della territorializzazione (Raffestin, 1980) operata dalla SNAI, c’è infatti la denominazione delle aree interne attraverso criteri e indicatori che misurano la marginalità territoriale. Questa operazione di quantificazione e certificazione della marginalità, ha finito per produrre un’unica astrazione uniformante. Si tratta in qualche modo del peccato originale di questa politica, che ha avuto l’indubbio merito di portare attenzione su questi territori e far convergere fondi e progettualità. Le nostre ricerche sul campo ci dicono quanto la circolazione di questa categoria abbia permesso ad alcuni territori di sentirsi nominati, convocati e in qualche modo riconosciuti all’interno di un progetto sovra-locale, nazionale. Al contempo, questa categoria è il risultato di un processo di territorializzazione esogeno che, pur volendo superare i divari di democrazia e cittadinanza, finisce per riprodurre una spazialità dicotomica tra interno ed esterno, centro e margini. L’astrattezza di questa categoria tradisce l’origine di questo discorso: un discorso nato in luoghi centrali, che siano istituzioni, centri di ricerca, università, piattaforme di produzione e riproduzione del discorso culturale. Che l’innovazione e la patrimonializzazione siano due dei temi egemoni nel discorso sulle aree interne è un sintomo di queste modalità di produzione di discorso: nominare il margine e investirlo di categorie, vocazioni e progetti. Alla base del discorso sulle aree interne agisce quella che secondo noi è una visione fortemente urbano-centrica, che immagina percorsi di sviluppo a partire da un lessico e delle priorità stabilite da agende politiche urbane.
Nei territori marginali questo significa innanzitutto avere una visione a tutto tondo. Nei territori dell’osso, considerare lo spopolamento come una questione principalmente abitativa, rischia di non far comprendere il legame fondamentale che lega questi territori alla dimensione produttiva ed ecologica: rischia di far dimenticare che il ri-popolamento deve essere accompagnato alla riattivazione di economie locali che creino occupazione e manutenzione di quei paesaggi dissestati e a rischio idro-geologico che, aldilà delle grandi opere, devono essere innanzitutto riattivati. Una ricerca che deve quindi partire da quegli elementi fondamentali che sono le Comunità Montane, le comunanze e gli enti di gestione degli usi civici, i consorzi e i bacini idrici: soggetti fondamentali per elaborare modelli di sviluppo complessivi per questi territori. Una ricerca che deve ripartire dalle analisi sul patrimonio immobiliare abbandonato, la frammentazione fondiaria, la Politica Agricola Comune e i finanziamenti che ne derivano: tutti temi sui quali, invece, la ricerca negli ultimi anni non è stata molto prolifica (Olori, 2021).
Mentre si moltiplicano le ricerche sui ritornanti – la cui rilevanza non è qui in discussione – continuano a scarseggiare studi su quei temi decisivi per il territorio che vanno ad interrogare il rapporto degli abitanti con le risorse locali. Questi approfondimenti mancano anche in ragione della precarietà di chi fa ricerca, impegnati e impegnate a sopravvivere tra le regole di un sistema competitivo, standardizzato, attraversato da logiche egemoniche e autoreferenziali che non premiano o incentivano il radicamento dei ricercatori e delle ricercatrici sui territori. Si produce un cortocircuito: la ricerca di legittimazione accademica non permette di intessere relazioni con i territori. Si insegue il mito dell’eccellenza, troppo spesso producendo un tipo di ricerca che viene percepita sui territori come retorica, lontana dai temi che hanno ricaduta concreta sulla vita di tutti i giorni.
In assenza di condizioni capacitanti e di consapevolezza politica, la ricerca sulle aree marginali rischia di produrre immaginari e percorsi di sviluppo stereotipati, standardizzati e unicamente funzionali alle agende di sviluppo internazionali. Le ricerche che non producono analisi critiche sulle tendenze dominanti non riescono a individuare o immaginare alternative per abitare e produrre in questi territori: alternative che, spesso, sono già presenti nei territori e devono essere incoraggiate, ritrovate, riattivate.
L’esperienza di ricerca collettiva da cui proveniamo ci dice come questa sia sempre uno strumento di potere: può essere inserita in percorsi di emancipazione e produrre autodeterminazione di soggettività e reti, ma al contempo può creare squilibri e relazioni di subalternità. In quanto processo di produzione di sapere, la ricerca è uno strumento di potere e come tale deve essere manipolata con cura e consapevolezza politica. Una ricerca radicata e consapevole deve stare dentro alle contraddizioni, riconoscere il proprio ruolo e scegliere, di volta in volta, a fianco di chi stare. Poiché senza una stretta relazione con i soggetti e i gruppi che insistono sui territori, l’elaborazione teorica critica non riuscirebbe a caricarsi di potenziale trasformativo necessario a rendere la ricerca scientifica una reale risorsa per pratiche e politiche di sviluppo.

* Emidio di Treviri è il gruppo di ricerca sul post-sisma del Centro Italia composto da ricercatori, professioniste e attiviste a partire da una call to action diffusa durante le scosse del terremoto del 2016-2017. Il percorso di ricerca-azione del collettivo ha trovato un primo momento di restituzione con la pubblicazione di Sul fronte del sisma (2018), poi con Sulle Tracce dell’Appennino che cambia. Voci dalla ricerca sul post-terremoto del 2016-17 (2021) e prosegue con gruppi di ricerca-azione che lavorano con orientamento alla prassi. Questa espressione esiste nel dibattito scientifico italiano da diversi decenni, ma è stata rilanciata in modo sorprendente dalla Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI): una politica pubblica di sviluppo e coesione territoriale lanciata nel 2013 dall’allora Ministro Barca. La SNAI ha definito “interni” quei territori significativamente distanti da alcuni servizi di mobilità, salute e istruzione. Il territorio nazionale è stato mappato attraverso alcuni indicatori, facendo emergere questa nuova geografia dell’Italia interna. Individuate 72 aree progetto, sono state definite delle Strategie locali di sviluppo e adeguamento dei servizi. Si possono infatti individuare caratteristiche più accademiche, politiche, giornalistiche, etc.

Bibliografia
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di Giulia De Cunto, Veronica Macchiavelli, Enrico Mariani, Francesca Sabatini, Emidio di Treviri (da orticalab.it)

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